Nel 1972, al largo delle coste calabresi di Riace Marina, due statue bronzee emersero dalle profondità del mare, segnando una delle scoperte archeologiche più affascinanti del Novecento. Da allora, i cosiddetti “Bronzi di Riace” sono diventati simbolo dell’arte classica, custoditi con orgoglio dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Eppure, a oltre cinquant’anni dal ritrovamento, nuove ricerche e indagini scientifiche stanno riscrivendo quella che fino a ieri sembrava una storia scolpita nel marmo.
A rilanciare con forza l’ipotesi che i due guerrieri non siano mai appartenuti alla Calabria, ma che abbiano invece origini e vicende legate alla Sicilia, è stato il medico e scrittore Anselmo Madeddu, coadiuvato da un’équipe multidisciplinare di studiosi tra cui l'archeologa, Rosalba Panvini, provenienti dalle università di Catania, Ferrara, Bari, Cagliari e Padova.
Un’indagine archeometrica che parte da Siracusa
Tutto nasce da una suggestione lanciata già negli anni Ottanta dall’archeologo americano Robert Rossoff, poi rilanciata da Anna Margaret McCann, secondo cui i Bronzi sarebbero stati recuperati al largo della Sicilia e successivamente trasferiti in Calabria da un’organizzazione criminale. Una suggestione che ha spinto Madeddu ad approfondire scientificamente ogni indizio.
Anselmo Madeddu non è un archeologo di professione. È un medico. Ma è anche un appassionato studioso, capace di mettere a frutto le competenze maturate nel campo della ricerca scientifica per indagare uno dei più grandi misteri della storia dell’arte antica.
«All’epoca Rossoff non fece nomi – racconta Madeddu – ma raccolse testimonianze e documenti che lo convinsero della bontà dell’ipotesi. Anni dopo contattai sua figlia e lei confermò tutto. Quel materiale esisteva». Fu questo il punto di partenza di un’indagine che, grazie a una solida base scientifica, avrebbe assunto ben altra profondità.
Madeddu comincia a occuparsi di archeometria, un settore ibrido tra archeologia e analisi di laboratorio. «Ho sempre lavorato con il metodo sperimentale – dice – e quando ho applicato questo rigore alla questione dei Bronzi, sono emersi dati impressionanti». In particolare, la composizione del rame utilizzato per la fusione delle statue non corrisponde ai metalli provenienti dai tradizionali mercati orientali dell’epoca, come Cipro o l’Asia Minore, ma alla Sardegna.
E non è tutto. «Le statue furono realizzate in sezioni separate, con colate su anime di terracotta, poi saldate insieme nel sito di assemblaggio. Ci siamo chiesti: da dove veniva quella terra refrattaria?», continua il medico-scrittore. Con l’aiuto dei geologi dell’Università di Catania e Ferrara, Madeddu ha analizzato i frammenti residui trovati all’interno dei bronzi. E il risultato ha dell’incredibile: le terre combaciano perfettamente con quelle di una cava di argilla situata nei pressi del tempio di Zeus Olimpio, alla foce del fiume Anapo, a Siracusa.
«Non solo una corrispondenza macroscopica, ma un’identità geochimica basata su elementi in traccia, il “DNA” delle terre, come lo chiamano i geologi. Una conferma scientifica inattaccabile».
Un mistero in parte svelato: archiomafia e testimoni taciuti
A questo punto, il percorso di Madeddu incrocia quello di una verità scomoda. Dopo la pubblicazione dei primi risultati, diversi testimoni – fino ad allora silenti per timore o per rispetto verso i protagonisti scomparsi – iniziano a parlare. Raccontano di movimenti sospetti, di statue trasportate via mare, di coperture organizzate negli anni Settanta.
«Alcuni di questi testimoni erano legati a personaggi dell’epoca noti all’ambiente della ristorazione e della cultura isolana – spiega Madeddu – come i figli di un noto ristoratore di Augusta, che hanno raccontato di aver visto arrivare le statue coperte da reti nel loro stabilimento. Una di queste fu perfino messa in piedi. Quelle immagini – disse uno di loro – le riconobbe anni dopo a Firenze, vedendo i Bronzi esposti. E fu allora che capì cos’era realmente successo».
C’è anche chi parla, per la prima volta, di un boss mafioso in latitanza che – ignaro delle origini siciliane del suo interlocutore – raccontava orgogliosamente dell’impresa di “trasferimento” delle statue. Una testimonianza raccolta all’estero, tra casualità e ricordi troppo ingombranti per essere taciuti ancora.
«Non è stato facile ottenere queste confidenze – ammette Madeddu – ma quando il peso della storia diventa più grande della paura, la verità viene a galla. Ci hanno detto: i reati sono prescritti, ora possiamo parlare. E lo hanno fatto».
Rosalba Panvini: “Il contesto storico ci porta in Sicilia”
L'archeologa Rosalba Panvini, già soprintendente in diversi siti siciliani e specialista in archeologia subacquea, ha sostenuto la ricerca di Madeddu fin dagli esordi, contribuendo con l'approccio metodologico della disciplina storica.
«Ciò che più ha fatto riflettere – racconta – è l'assenza di un contesto di affondamento: nessun relitto, nessun carico, nessuna traccia di nave. I Bronzi sono stati trovati isolati, in una zona di mare dove è difficile immaginare che nessuno si fosse accorto di nulla per secoli».
Panvini ha anche confermato l'anomalia della posizione di rinvenimento e sottolineato che, nei siti subacquei in cui ha operato, la presenza di materiali d'accompagnamento è stata costante: «Qui no. Solo due statue. Troppo poco per giustificare un naufragio».
In parallelo alla parte archeometrica, Panvini ha ricostruito il contesto storico: nel V secolo a.C., la Sicilia, e in particolare Siracusa sotto i Dinomenidi, era uno dei poli più potenti del Mediterraneo. Dopo la sconfitta di Cipro da parte dei Popoli del Mare, le rotte del rame si spostarono in Sardegna, sotto l'influenza proprio dei Dinomenidi. Da lì, con officine locali e artigiani migranti, sarebbe potuta nascere la manifattura dei Bronzi.
Una verità scientifica da accettare, non da temere
«Non vogliamo ribaltare la storia, ma integrarla con tasselli che oggi sono supportati da dati scientifici solidi – concludono Madeddu e Panvini –. Sappiamo bene quanto sia difficile accettare una verità che contraddice il mito costruito attorno a un simbolo nazionale. Ma la scienza non ha paura: misura, confronta, verifica. Ed è proprio questo che chiediamo: confronto, non chiusura».
La storia dei Bronzi di Riace, insomma, potrebbe essere ancora tutta da riscrivere. E questa volta, con radici che affondano più a sud, nel cuore della Magna Grecia.
La storia dei Bronzi di Riace, insomma, potrebbe essere ancora tutta da riscrivere. E questa volta, con radici che affondano più a sud, nel cuore della Magna Grecia.