
Il senatore Matteo Renzi è stato ospite di Corrado Formigli lo scorso 2 giugno, ossia nel giorno in cui si celebra quella Costituzione, di cui l’ex Presidente del Consiglio avrebbe fatto scempio, se gli Italiani non gliel’avessero impedito, col referendum del 4 dicembre 2016, data che meriterebbe almeno la dedicazione di una via in qualche città italiana.
Ad intervistarlo, oltre al conduttore del programma, il giornalista del “Fatto Quotidiano” Antonio Padellaro.
Con la consueta prosopopea che lo connota, il leader di “Italia viva” è riuscito ad egemonizzare la conversazione, rispondendo alle provocazioni, contrattaccando, ironizzando ed esercitando sugli interlocutori una sorta di magnetismo, che somiglia a quello adottato dal gatto col topo.
Quest’ultimo, infatti, pur essendo un roditore velocissimo, raggiunto dallo sguardo del suo predatore, ne rimane intrappolato.
Ebbene, anche giornalisti di esperienza, notoriamente incisivi e, a tratti, pure aggressivi, di fronte a colui che Marco Travaglio chiama ormai l’Innominato, subiscono una inspiegabile inibizione, che ne riduce notevolmente l’efficacia.
È raro che Renzi esca male da un confronto televisivo; con la sua formidabile dialettica, infatti, riesce di solito a spuntarla sugli altri.
L’unico che lo sovrastò decisamente fu il compianto Ciriaco De Mita che, sebbene già prossimo ai novant’anni, durante la campagna referendaria di cui sopra, si impose su di lui, dominandolo nettamente.
Eppure la tecnica del politico fiorentino è ormai abbastanza chiara: anziché affrontare l’avversario sul terreno su cui viene attaccato, egli si scaglia contro di lui, magari rivelando particolari imbarazzanti che lo riguardano, a livello professionale, politico o personale, così da disorientarlo e intimidirlo.
Ciononostante, l’effetto che suscita nel pubblico non è, però, a suo favore, perché l’arroganza non paga, ma provoca antipatia e, a volte, anche repulsione.
Grazie a queste sensazioni, oltre a perdere il referendum costituzionale, Renzi ha subito un tracollo elettorale, precipitando dal 40% delle europee del 2014 all’attuale 2%.
E alla domanda di Padellaro sul rischio di non ottenere i voti sufficienti ad entrare in Parlamento alle prossime elezioni, ha sardonicamente risposto che, se è stato capace di mandare a casa Giuseppe Conte e sostituirlo con Mario Draghi col 2%, figuriamoci a cosa potrebbe arrivare con una percentuale semplicemente doppia.
Spero che i telespettatori – e i nostri lettori – prendano queste sue considerazioni come una inquietante minaccia e si comportino di conseguenza.
Anche se delle due affermazioni è vera solamente la prima, perché il vero artefice della nascita del governo in carica non è lui, ma il presidente Mattarella.
Sfasciare una maggioranza risicata non denota, inoltre, una grande capacità.
Negli anni del pentapartito, anche forze politiche minori, come il Partito Repubblicano Italiano o il Partito Liberale Italiano, minacciavano di far cadere il governo quando lamentavano divergenze dal programma sottoscritto.
Nella fattispecie, per quanto non abbia mai nutrito stima nei confronti di Giuseppe Conte, non mi pare che la decisione di cacciarlo da Palazzo Chigi sia stata un’operazione meritoria.
Non foss’altro che per essere scaturito, il suo governo, da un responso elettorale, condizione essenziale e scontata in una democrazia, che in Italia è ormai divenuta una rarità.
Molti si chiedono adesso quale potrà essere il futuro politico di Renzi, se cioè il suo declino proseguirà inesorabilmente o se avrà l’abilità di tornare in auge, non limitandosi ad affossare i governi, ma presiedendoli o assumendo ruoli all’interno di essi.
Per il bene del Paese mi auguro che non si verifichi mai più nessuna delle due eventualità e penso che lo auspichi anche la maggioranza degli Italiani, per quanto negli ultimi tempi abbiano manifestato un comprensibile disinteresse verso la politica.