
E così anche Toto Cutugno ci ha lasciati, uno dei cantautori più ascoltati e apprezzati in Italia e all’estero, dopo una malattia che da tempo lo affliggeva, è uscito di scena, congedandosi per sempre dal suo pubblico.
In realtà non è proprio così, le sue canzoni, infatti, continueranno ad essere ascoltate per tanto tempo ancora, ma certamente la sua produzione è terminata e il suo talento si è spento, secondo le leggi inesorabili della natura, che non fanno sconti a nessuno.
La carriera di quest’artista, nelle cui vene scorreva anche sangue siciliano, è stata un po’ tormentata da un rapporto non proprio idilliaco con la critica, che in diverse occasioni lo ha stroncato impietosamente e forse anche ingenerosamente.
Credo che le bordate fossero rivolte ai testi delle sue canzoni, accusati di essere scontati, banali e nazional popolari.
Ricordo una domanda che gli porse un intervistatore durante una conferenza stampa a Sanremo, chiedendogli: “Gli ultimi titoli delle sue canzoni hanno riguardato i figli e le mamme, il prossimo si riferirà a Dio?”
In suo soccorso intervenne Pippo Baudo, che liquidò subito l’impertinente giornalista dicendogli: “Ma che razza di domanda hai fatto?”.
Premesso che non sono mai stato un fan di Toto Cutugno, che concordo sul giudizio di ovvietà riferito a certi suoi versi e che non sono un musicologo, mi permetto, però, di ricordare che una canzone è fatta per metà di parole, ma per l’altra metà di musica e non credo che in questo campo Cutugno fosse così a terra.
Le sue erano musiche orecchiabili, armonizzate molto bene, che mostri sacri come Adriano Celentano e Ray Charles hanno cantato con successo, oltre ad altri pezzi da novanta della musica leggera italiana, da Franco Califano a Fausto Leali.
Tornando ai testi, poi, ancorché mancassero in essi i riferimenti ideologici di altri cantautori impegnati come Guccini e De Gregori, o la poesia di De André e Dalla, toccavano comunque temi vicini alla gente comune e semplice, magari meno istruita, ma parimenti appassionata e desiderosa di divertirsi, godendo di tanta buona musica.
Inoltre, dalle testimonianze raccolte in questi giorni, che sicuramente avranno risentito dell’emozione suscitata dalla sua scomparsa, Toto Cutugno non si dava arie, riconosceva i suoi limiti culturali e probabilmente era proprio questo che lo rendeva gradevole a tutti.
Penso sia sempre giusto e opportuno distinguere il talento dall’esibizione perché, anche se la seconda non piace o non convince, il primo, quando c’è, non si può negare.
I film di Totò, ad esempio, erano molto popolari e tanti di loro erano mediocri quanto a trama e sceneggiatura. Ma questo non inficia minimamente la grandezza del protagonista che li ha interpretati.
Anzi, proviamo a immaginare cosa sarebbero state quelle pellicole senza cotanto estro.
Per fortuna lo hanno capito registi come Comencini, Steno, Monicelli, Risi e Pasolini, che hanno saputo valorizzare il principe De Curtis, offrendogli ruoli in film celeberrimi come “Guardie e ladri”, “Totò e Carolina”, “L’imperatore di Capri”, “Uccellacci e uccellini”, “Operazione San Gennaro”.
Stessa sorte capitò a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, due artisti di strada finiti alla ribalta del Sistina nel “Rinaldo in campo” di Domenico Modugno.
All’inizio furono scritturati per tanti spettacoli commerciali, che le proprie origini non agiate non permisero loro di rifiutare, fino a quando non li notarono cineasti del livello dei fratelli Taviani, che li vollero protagonisti de “La giara” in “Kaos”, di Fellini, che chiamò Ingrassia per il ruolo dello zio matto in “Amarcord” e di Comencini, che scelse la coppia per interpretare il gatto e la volpe nel suo “Pinocchio” televisivo.
Dopo la morte, furono tutti rivalutati e consegnati alla storia del cinema come delle star, immagino che, fra non molto, un analogo giudizio sarà dato su Toto Cutugno.
Forse con una maggiore lungimiranza e obiettività, potrebbero essere riconosciuti i meriti di tanti artisti quando sono ancora in vita.