Probabilmente gli amici lettori si aspetterebbero oggi una riflessione sull’inferno scatenato in Sicilia da un pugno di imbecilli, sulle cui coscienze gravano tre vittime, diversi feriti, migliaia di sfollati e danni incalcolabili al patrimonio artistico e ambientale.
Nonostante tutto, infatti, si vuole continuare a credere che i responsabili dello scenario apocalittico nel quale ci siamo trovati nei giorni scorsi, abbiano una coscienza e possano, quindi, rendersi conto del male arrecato non solo a chi, in questo momento, subisce sulla sua pelle le conseguenze di tanta sconsideratezza, ma anche a loro e ai propri figli, quelli già nati e quelli che vedranno la luce in futuro.
Perché i danni provocati dagli ultimi incendi sono certamente irreparabili e ne continueremo a subire gli effetti per anni.
Se poi – il Cielo non voglia! – dalla combustione dei rifiuti di Bellolampo, la grande discarica palermitana, si è effettivamente sprigionata nell’aria la temuta diossina, andremo incontro a rischi molto alti per la nostra salute, che si protrarranno per decenni.
Ma oggi è giusto e doveroso rievocare quanto è accaduto quarant’anni fa e che, in qualche modo, è legato al dramma che stiamo vivendo adesso.
Il 29 luglio del 1983, infatti, veniva ucciso a Palermo, dinanzi alla sua abitazione di Via Pipitone Federico, il giudice Rocco Chinnici.
Fu il primo attentato dinamitardo compiuto in città, nel quale saltarono in aria anche Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, componenti della scorta e Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile in cui il magistrato viveva.
Chinnici è stato uno dei più efficaci protagonisti della lotta contro Cosa nostra, per le sue intuizioni eccezionali, alcune delle quali divenute nel tempo leggi dello Stato, e per le profonde innovazioni introdotte nel campo dell’investigazione.
Fu tra i primi, infatti, a concepire il reato di associazione di tipo mafioso e si deve a lui l’idea di non combattere più individualmente la criminalità organizzata.
Dopo la morte di colleghi come Pietro Scaglione, Cesare Terranova e Gaetano Costa, egli maturò la necessità di ripensare la strategia antimafia, creando una squadra di magistrati, che potessero lavorare assieme.
In tal modo, nella malaugurata ipotesi che uno di loro fosse stato ucciso, gli altri avrebbero potuto proseguire le indagini, non disperdendo i risultati acquisiti fino a quel momento.
Furono così gettate le basi di quel pool, che qualche anno dopo avrebbe istruito il più grande processo contro Cosa nostra, ma anche delle direzioni distrettuali antimafia, presenti in tutte le sedi di Corte d’Appello e della cosiddetta Superprocura, che da Roma coordina le indagini sull’intero territorio nazionale.
Dalle mani formative di Chinnici sono, così, usciti giudici del calibro di Giovanni Falcone, che egli “scoprì”, chiedendone il trasferimento dalla Sezione Fallimentare all’Ufficio Istruzione, di Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, cui il Paese deve tantissimo.
Inoltre, egli volle entrare nelle scuole, per incontrare i ragazzi e spiegare loro i loschi interessi gestiti dalla mafia, inaugurando quella educazione alla legalità, che è ormai ritenuta imprescindibile.
Un ottimo ausilio per approfondire la conoscenza di questo grande servitore dello Stato e apprezzarne la statura professionale e morale può essere il libro Trecento giorni di sole. La vita di mio padre Rocco, un giudice scomodo, scritto dal figlio Giovanni, edito da Mondadori.
In 172 pagine e 24 capitoli, l’Autore, oggi un avvocato molto stimato, descrive con uno stile essenziale ma estremamente gradevole e coinvolgente, la storia della sua famiglia.
A cominciare dal 1952, anno in cui i genitori si sono sposati, poco prima del giuramento di fedeltà alla Repubblica italiana e alle sue leggi con cui, il 31 marzo 1953, Rocco avrebbe sancito il proprio ingresso in magistratura.
La narrazione è inserita tra i ricordi terribili di quel 29 luglio 1983, con cui comincia e finisce il libro e dunque tra le variegate sensazioni di sgomento, incredulità, speranza, disillusione, dolore e orrore scaturite dall’impressionante boato, prodotto dall’esplosione.
Dalla lettura del testo viene fuori, innanzitutto, il profilo di un giudice integerrimo, originario della provincia, dove era stato educato alla fatica e al sacrificio, che fin dalle prime esperienze come pretore di Partanna, riceve gli encomi dai superiori, per la serietà con cui conduce il proprio lavoro.
Questi tratti della sua personalità lo accompagneranno nel prosieguo della carriera, inducendolo a rinunciare finanche ai giorni festivi, ai pranzi in famiglia e al poco tempo libero rimastogli, tutte le volte in cui un’improvvisa telefonata lo informava di una situazione cui non doveva e non voleva mancare.
Un magistrato intelligente, acuto, coraggioso e intraprendente, capace di scoprire e descrivere con grande lucidità i sistemi di potere occulto, creatisi in Sicilia e gli intrecci di economia, politica e finanza sui quali essi poggiavano.
Un tenace lottatore che non si tirava mai indietro, che non arretrava dinanzi agli innumerevoli ostacoli che incontrava, pur nell’assoluta consapevolezza di avere un destino segnato e dunque di non riuscire a completare il suo lavoro.
Ma le pagine di maggior pregio sono quelle dedicate all’umanità di Rocco Chinnici, che traspare dai tanti momenti di tenerezza condivisi con la famiglia.
Dai forti abbracci dati ai bambini al suo rientro in casa a quelli pensati, desiderati e purtroppo mai attuati, una volta cresciuti.
Dalle scampagnate in quel di San Ciro, presso Salemi, alle passeggiate del sabato pomeriggio tra le vie più eleganti della città, che culminavano sempre tra gli scaffali allettanti del supermercato Standa.
Un padre affettuoso e fermo, che sapeva consigliare, richiamare, persuadere, dialogare, ma che non transigeva quando c’erano in gioco i diritti delle persone o la dignità delle istituzioni.
Che testimoniava con la vita gli ideali in cui credeva e i principi che lo ispiravano, che ha saputo trasmettere ai figli l’amore per questa terra, che egli sognava più libera e sicura.
Un amore che nel libro si riscontra nei frequenti e nostalgici riferimenti alla Palermo degli anni Settanta e Ottanta, con i suoi palazzi moderni, edificati con gusto dopo la guerra, frammisti – ahimè! – alla speculazione edilizia, che si è impietosamente accanita specialmente contro i monumenti d’epoca floreale, distruggendoli o deturpando buona parte di essi.
La miseria e la disoccupazione da un lato e l’ignoranza dall’altro, hanno purtroppo favorito per anni il diffondersi e l’affermarsi in Sicilia di logiche perverse, funzionali a una spregiudicata ricerca di profitti personali, sovente a scapito della bellezza e dei bisogni della collettività.
Queste logiche, per quanto ridimensionate, sono tutt’oggi responsabili di un malcostume, che minaccia continuamente la convivenza in un’isola difficile e complicata, dove il desiderio di morte e di oblio rischia ancora di imporsi su quello di giustizia e di verità, ostacolando – e dunque ritardando – la nascita di una coscienza nuova, senza la quale, soleva dire Rocco Chinnici, “noi magistrati, da soli, non ce la faremo mai”.