
La morte di Julia Ituma, la pallavolista italiana di origini nigeriane, è ancora avvolta nel mistero.
L’unica certezza è che una promessa del volley femminile, ha cessato di vivere ad appena diciott’anni, precipitando dalla finestra di un albergo di Istambul, dove si trovava con la sua squadra, la Igor Gorgonzola Novara, per la finale di Champions League.
L’ipotesi del suicidio è finora quella più accreditata dalla stampa turca e da un video, che ritrae la ragazza mentre cammina nel corridoio dell’hotel e poi si siede sul pavimento, appoggiando la testa sulle ginocchia, prima di entrare nella sua stanza, situata al sesto piano.
La sua compagna di camera non si sarebbe accorta di nulla fino a quando non è stata svegliata dalla polizia, che aveva trovato il corpo esanime di Julia.
Ovviamente le autorità italiane stanno acquisendo le necessarie informazioni, per fare luce su di una vicenda triste e ancora densa di interrogativi. Non conviene, pertanto, addentrarsi in essa finché non emergeranno ulteriori dati.
È possibile, però, trarre spunto da questa ennesima tragedia, che riguarda il mondo degli adolescenti, per riflettere sui suicidi dei giovani, sempre più frequenti e allarmanti. L’ISTAT ha calcolato che, mediamente, in Italia si tolgono la vita quattromila ragazzi ogni anno.
Il suicidio è così la quinta causa di morte nella fascia d’età compresa tra i dieci e i diciannove anni, la quarta in quella dai quindici ai diciannove, che diviene la terza se si considerano solo le ragazze.
Allargando lo sguardo sul mondo, risulta che un giovane si toglie la vita ogni quindici minuti, per un totale di quarantaseimila suicidi ogni anno.
Dati agghiaccianti, che dovrebbero interpellare soprattutto gli educatori.
Evidentemente qualcosa non funziona più nell’approccio con i più piccoli, dal momento che si fatica a comprendere quali cause possano esserci dietro una decisione così estrema.
A parte le gravi situazioni patologiche, infatti, tra gli adulti le cause più frequenti di suicidio sono lo stress, la perdita del lavoro, varie forme di umiliazione subita, la diagnosi di una malattia incurabile.
Fattori che non dovrebbero interessare le fasce anagrafiche considerate, o per lo meno, un tempo non le interessavano.
Si vede che l’adolescenza ha perso quell’alone di leggerezza con cui era vissuta una volta e non è più la fase esistenziale alla quale si voleva rimanere ancorati.
Spensieratezza, romanticismo, progettualità e forse anche un pizzico di incoscienza, erano gli ingredienti, che la rendevano speciale, interessante, unica, che ci facevano sempre pensare a lei con grande nostalgia.
Naturalmente non mancavano i fallimenti, le delusioni, gli amori non corrisposti, gli insuccessi scolastici, le incomprensioni e i conflitti familiari.
Ma tutto serviva a corroborare il carattere, a temprare la personalità, a prepararsi ad affrontare e superare i grandi ostacoli della vita e a capire che essa non è sempre in discesa, a non arrendersi, a reagire e a rialzarsi dalle cadute.
Per molti, adesso, l’adolescenza si trasforma spesso in un inferno, dal quale si crede di potere uscire in un solo modo.
Il senso di frustrazione provato da alcuni è così forte e insopportabile da tramutarsi in scoramento, avvilimento fino a sprofondare in quella che Kierkegaard chiamava la “malattia mortale”, che è la disperazione.
L’argomento è assai complesso e drammatico e meriterebbe un approfondimento che non possiamo permetterci, tuttavia è lecito e doveroso porsi delle domande, non per trovare dei colpevoli, ma per capire e prevenire.
Chi, ad esempio, negli ultimi tempi ha esercitato sui ragazzi il pressing di una competizione insana, spronandoli a primeggiare e ad eccellere sui loro amici e compagni fin dai primi anni di scuola?
Chi li ha costretti ad affrontare prove selettive per proseguire gli studi universitari impedendo, talora, di coronare un desiderio professionale coltivato da sempre?
Chi ha trasmesso loro l’idea che la vita sia fondamentalmente successo, benessere economico e notorietà?
Che l’avere conti più dell’essere?
Che l’apparenza, l’aspetto fisico, la cura del corpo valgano più della profondità spirituale?
Che le virtù morali siano ormai degli accessori di cui si può fare a meno?
A questo punto il poeta rinvierebbe “ai posteri l’ardua sentenza”.
Temo che, in questo caso, i posteri siamo già noi.