"Cooperatores veritatis", questo il motto episcopale scelto da Joseph Ratzinger quando, nel 1977, Paolo VI lo nominò Arcivescovo di Monaco e Frisinga.
E ad esso è sempre rimasto fedele, mantenendolo anche quando fu eletto 265° Papa della Chiesa cattolica e dopo le sue storiche dimissioni, annunciate l’11 febbraio 2013 e divenute esecutive alle ore 20 del successivo 28 febbraio.
La sua abdicazione è destinata a far parlare per decenni e forse per secoli, così come si discute ancora del “gran rifiuto” di Celestino V, benché esso risalga al 1294.
La motivazione ufficiale che Benedetto XVI diede ai cardinali che, increduli, lo ascoltavano fu: "ingravescente aetate", età avanzata.
Effettivamente il Pontefice aveva allora 86 anni e sicuramente non riteneva di avere una forma fisica compatibile con il peso di responsabilità, che avrebbe dovuto sostenere.
Era, tuttavia, ancora vivo il ricordo del suo predecessore, che aveva saldamente mantenuto il timone della Chiesa sino alla fine, nonostante il deterioramento del suo corpo, minato dal Parkinson.
Inoltre, Benedetto è vissuto altri dieci anni da quella clamorosa decisione, vuol dire che non era poi messo così male, da dovere lasciare.
Da qui la dovizia di interrogativi, che hanno accompagnato il suo gesto e, come si diceva prima, continueranno a riguardarlo per molto tempo ancora.
Poi c’è la lunga lista di ipotesi, basata sui fatti incresciosi, verificatisi in quegli anni all’interno della Chiesa.
A cominciare dalla pedofilia, piaga morale della quale Ratzinger era a conoscenza ancor prima della sua elezione e che cercò di contrastare, anche attraverso coraggiose denunce e richieste di perdono.
A questa grave ferita vanno aggiunte le non facili relazioni in seno alla Curia, il comportamento non sempre irreprensibile di certi suoi collaboratori, lo scandalo Vatileaks, che aveva coinvolto persone a lui molto vicine.
Si tratta di situazioni, oggettivamente molto spiacevoli, per fronteggiare le quali sarebbe occorsa una figura più energica e intraprendente.
Ma si è sempre saputo che quello pontificio non è un soglio facile, sin dalle origini è stato pieno di insidie, esposto ad attacchi virulenti e, in tanti casi, ad aggressioni fisiche, violente, talora micidiali.
Può uno studioso come Benedetto avere sottovalutato tutto ciò e avere previsto un pontificato scevro di rischi e difficoltà? Lui che per un ventennio era stato a capo di uno dei più importanti dicasteri romani?
Personalmente ritengo che la spiegazione più credibile della sua rinuncia si trovi proprio nel suo motto, in quella “collaborazione della verità”, che Ratzinger ritenne, evidentemente, di non riuscire più a prestare da Papa.
La motivazione non è dunque di natura giuridica o politica o morale, ma culturale, la più congeniale ad un Papa intellettuale.
Credo, ad esempio, che sulla sua decisione abbia pesato tantissimo il diniego da lui subito da parte di alcuni studenti e docenti della Sapienza, che gli impedirono di tenere in quell’Ateneo, peraltro di fondazione pontificia, una lectio magistralis.
Ma anche il putiferio scatenato dalla sua conferenza all’Università di Ratisbona, che aveva pure seminato delle vittime tra i cristiani, nei Paesi a maggioranza musulmana.
E naturalmente le accuse rivolte a lui, che era tedesco, dopo la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, uno dei quali aveva rilasciato dichiarazioni negazioniste sullo sterminio degli Ebrei.
Per non parlare delle reazioni acerrime, spesso sarcastiche e dissacranti, sortite sistematicamente dai suoi interventi sui più delicati temi antropologici, etici e filosofici.
Nei quasi otto anni in cui fu alla guida della Chiesa, subì forme di intolleranza, che gli hanno certamente arrecato tanta sofferenza.
Anche perché, è bene sottolinearlo, a dispetto dell’apparenza, egli era sì tetragono nell’affermazione dei contenuti in cui credeva fermamente, ma anche incline al dialogo e al confronto sereno e onesto.
Come si addice a chi ha dedicato la vita agli studi ed è sempre alla ricerca della verità.
Ratzinger incontrò protestanti, ortodossi, ebrei e musulmani.
Discusse con scienziati, filosofi, giuristi, teologi, specialmente con quelli di orientamento diverso dal suo.
E soprattutto ci ha lasciato pagine estremamente illuminanti, scaturite dalla collaborazione con intellettuali atei, verso i quali si mostrò sempre aperto, disponibile, interessato.
Egli, insomma, impersonava un esempio di cultura alta, nobile e specchiata, che stride con gli attuali modelli di aggressività e intolleranza.
Da strenuo oppositore del relativismo etico, è stato schiacciato dall’arroganza di chi, in nome della tolleranza, vorrebbe imporre – e forse ci sta riuscendo! – la dittatura del pensiero unico.
Concludiamo questo ricordo dedicandogli con gratitudine le considerazioni di un filosofo come Norberto Bobbio, che amava definirsi “uomo di ragione e non di fede”, che però viveva “il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede”.
Così scriveva il grande filosofo nel 1986: “Chi crede nella bontà della tolleranza [...] crede nella sua fecondità e ritiene che il solo modo di ridurre l’intollerante ad accettare la tolleranza sia non la persecuzione, ma il riconoscimento del suo diritto ad esprimersi [...] Può valer la pena di mettere a repentaglio la libertà facendo beneficiare di essa anche il suo nemico, se l’unica possibile alternativa è di restringerla sino a rischiare di soffocarla o per lo meno di non permetterle di dare a tutti i suoi frutti. Meglio una libertà sempre in pericolo ma espansiva che una libertà protetta ma incapace di svilupparsi. Solo una libertà in pericolo è capace di rinnovarsi. Una libertà incapace di rinnovarsi si trasforma presto o tardi in nuova schiavitù”.