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160 anni dall'Unità d'Italia, ma il divario culturale non lo abbiamo ancora colmato

19-03-2021 07:00

Nicola Filippone

Cronaca, Cultura&Spettacolo, Focus, educazione, Nicola Filippone,

160 anni dall'Unità d'Italia, ma il divario culturale non lo abbiamo ancora colmato

L'intervento del preside del Don Bosco Ranchibile Nicola FIlippone

Nicola Filippone, preside del liceo "Don Bosco" Ranchibile di Palermo, è uomo di grande cultura i cui interventi sulle pagine del Giornale di Sicilia riscuotono sempre grande interesse. Siamo felici che abbia scelto Sudpress per condividere le sue riflessioni sull'educazione e il mondo giovanile: è la prosecuzione di un percorso avviato già con Suor Maria Trigila e i ragazzi del terzo anno del liceo che dallo scorso gennaio seguono il corso di giornalismo pensato per loro dalla nostra redazione.

Ecco il suo primo intervento


All’indomani dell’Unità d’Italia, di cui il 17 marzo abbiamo celebrato il 160° anniversario, uno dei principali problemi del nuovo Regno era quello culturale. L’80% della popolazione risultava analfabeta, con un tasso che al Sud arrivava fino al 90% e al Nord si attestava intorno al 70%.

Il fenomeno, purtroppo, era molto più presente nelle donne: dai registri parrocchiali matrimoniali del tempo, infatti, si evince che 80 volte su cento la moglie non firmava, contro il 60% dei mariti. Vi erano, inoltre, serie difficoltà di integrazione tra gli abitanti delle regioni, appartenuti, fino ad allora, a Stati diversi, talora pure in contrasto tra di loro. E se non si può negare l’esistenza di una letteratura italiana, già affermatasi con scrittori, anche coevi, come Leopardi, Foscolo e Manzoni, una lingua parlata sull’intero territorio nazionale non c’era ancora. La comunicazione ordinaria, pertanto, risultava spesso inficiata dalle incomprensioni e dagli equivoci.
Il Regno di Sardegna, le cui leggi, a cominciare dallo Statuto albertino, erano state estese a tutto il Paese, aveva disciplinato l’ordinamento scolastico con dei provvedimenti, concepiti dal Ministro della Pubblica Istruzione Gabrio Francesco Casati, entrati in vigore nel 1859. Essi dividevano il percorso di studi in elementare (4 anni), ginnasio (5 anni) e liceo (3 anni).

Sebbene stabilissero sulla carta l’obbligo scolastico per i primi due anni dell’elementare, non prevedevano sanzioni da applicare ai trasgressori. Per questo furono ampiamente disattesi dalla maggior parte dei bambini, specialmente del Mezzogiorno, costretti dalle famiglie a lavorare in campagna, nelle botteghe artigiane o nelle miniere di zolfo.
Nel 1877 il Ministro Michele Coppino, esponente della Sinistra liberale, diede il nome ad un’altra importante legge, che aumentava a 5 gli anni della elementare e introduceva un’ammenda per i genitori degli alunni che non frequentavano le aule scolastiche. Questa novità non riscosse il favore popolare, ma fu percepita come l’ennesima imposizione dello Stato sabaudo, ritenuto insensibile ai bisogni economici di tante famiglie indigenti. Tuttavia, gli interventi del governo in favore dell’istruzione si rivelarono abbastanza efficaci, se all’inizio del XX secolo la percentuale di
illetterati era scesa al di sotto del 50%.

Il fascismo affidò al filosofo Giovanni Gentile il compito di realizzare una riforma della scuola nel 1923, di cui tuttora permangono alcuni tratti salienti. Con l’estensione dell’obbligo scolastico a 14 anni, alla vigilia della Seconda guerra mondiale gli italiani non in grado di leggere né di scrivere erano meno del 20%.
L’art. 34 della Costituzione repubblicana, approvata il 27 dicembre 1947, ha sancito che l’istruzione inferiore è obbligatoria per almeno 8 anni e che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno
diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

Nel secondo dopoguerra il diffondersi di strumenti comunicativi, quali la radio e la televisione, ha contribuito in maniera determinante alla comprensione della lingua nazionale. Secondo una nota battuta di Umberto Eco, Mike Bongiorno ha fatto per l’Unità d’Italia più di Giuseppe Mazzini. Indubbiamente, negli anni Cinquanta e Sessanta, la RAI ha svolto un ruolo prezioso, proponendo programmi esplicitamente istruttivi: dal celeberrimo Non è mai troppo tardi del maestro Manzi ai documentari di arte e di scienza, dagli intelligenti giochi a premi per adulti e ragazzi ai classici della letteratura italiana e straniera, riproposti nella forma dello sceneggiato televisivo.
Nel frattempo, la scuola si è ulteriormente innovata e democratizzata: nel 1963 fu unificata la media inferiore, nel 1974 comparvero gli organi collegiali, nel 1997 venne concessa l’autonomia, nel 2000 le istituzioni private che ne avevano i requisiti divennero paritarie. Dal 2010, inoltre, l’obbligo
scolastico riguarda la fascia di età compresa tra i 6 e i 16 anni 
e coloro che l’hanno assolto hanno il diritto/dovere di frequentare attività formative fino al conseguimento della maggiore età.
Ciononostante, la situazione attuale non è rosea, l’Italia è al quarto posto nella classifica dell’analfabetismo funzionale, dopo Indonesia, Cile e Turchia. Vuol dire che il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni, pur sapendo leggere, è “incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. La dispersione scolastica è del 15%,
con punte del 37% in Sicilia e del 37,4% in Calabria
, che detiene il primato negativo. Anche il rilevamento dell’INVALSI è preoccupante, se focalizziamo soltanto le prove somministrate nelle
quinte classi della superiore, possiamo notare che a livello nazionale ottiene un risultato positivo il 65,4% degli studenti per l’italiano e il 58,2% per la matematica. Il 51,8% raggiunge il livello B2 in inglese, ma nella prova di ascolto scende al 35%. Anche in questo caso i dati peggiorano al Sud: in Sicilia superano il test d’italiano 5 alunni su 10 e 4 su 10 quello di matematica.
Vero è che i ragazzi sanno di non essere valutati per l’INVALSI e non si applicano appieno, ma che il grado medio di cultura generale tra i giovani sia sceso è innegabile. Essi leggono poco e dunque sanno poco, le opere di autori come Dostoevskij, Tolstoj, Hugo, Manzoni, capolavori mondiali
assoluti, sono giudicati “mattoni” da scartare. La frequentazione dei social ha imposto uno stile
stringato, talvolta incurante della forma o della sintassi. Foto e video sovente soppiantano la
scrittura, perché considerati più efficaci delle parole.
La legislazione scolastica degli ultimi tempi
non si è sempre preoccupata della crescita culturale degli studenti: la revisione di alcuni piani di studio ha determinato la riduzione oraria di materie come la storia e la geografia; l’alternanza scuola lavoro ha sottratto troppo tempo alle lezioni mattutine e allo studio pomeridiano; si parla addirittura di accorciare di un anno la secondaria di II grado. Le conseguenze di questo inaridimento culturale sono la perdita del buon gusto, l’imbarbarimento dei comportamenti, il frequente ricorso alla violenza da parte dei ragazzi, la maleducazione dilagante, la microcriminalità in crescita, la mancanza di senso tra i giovani.

Dall’anno scorso si è aggiunta anche la grande incertezza causata dalla pandemia, che ha costretto i docenti a cimentarsi in una didattica cui non erano preparati e gli alunni a lunghe esposizioni
davanti al monitor di un computer o di un tablet, oltre ad essere sballottati tra l’abitazione e l’aula, a seconda del colore assegnato alla propria regione.
Fa bene sperare che il Presidente del Consiglio Mario Draghi abbia inserito la scuola nel suo programma di governo letto in Parlamento, ponendola subito dopo l’emergenza sanitaria.

A lui e al nuovo Ministro Patrizio Bianchi ci permettiamo di rivolgere un sentito augurio di buon lavoro,
ricordando un loro illustre predecessore, che il 16 marzo di 43 anni fa veniva sequestrato e il
successivo 9 maggio assassinato, l’on. Aldo Moro: “la scuola italiana concorre a creare cittadini
fieri dei propri diritti. La professionalità della scuola e la sua umanizzazione stanno a dimostrare
che questa istituzione è legata alla società in modo indissolubile, specchio della sua crisi, riflesso
del suo disagio, momento del suo divenire, condizione per la sua giustizia”.

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