Un'opera che doveva estendersi da piazza Europa a viale Kennedy, poi realizzata per meno della metà. Un appalto che doveva costare 168mila euro, poi lievitato di altri 300mila euro per "ragioni di sicurezza". E così sono arrivati anche gli incidenti stradali e, alla prima pioggia, l'allagamento. Qual è il valore di una (non) pista ciclabile?
"Questo lavoro è stato partorito senza programmazione ma con il solo intento di stupire con effetti speciali", lo avevano detto Manlio Messina e Giuseppe Castiglione unendosi al coro di chi non è affatto rimasto folgorato dalla pista ciclabile del Lungomare etneo, oggetto negli ultimi mesi di pericolosi incidenti politici, mediatici e dulcis in fundo anche di cronaca.
Ce ne siamo occupati sin dall'inizio. E a sollevare forti riserve sul progetto anche il consigliere comunale Niccolò Notarbartolo (PD): “Come si può dire di aver realizzato un risparmio di 1 milione di euro se per due tratti di piste ciclabili da 2 km e 400 metri servivano 4 milioni e 400mila euro, mentre sono stati spesi 3 milioni e 400mila euro per realizzarne meno della metà e soltanto un tratto di 1 km e 100 metri?”.
Faccciamo un passo indietro. L’intervento prevedeva “la creazione di una pista ciclabile, lato mare, per una lunghezza complessiva di 2.200 metri tra la piazza Europa e viale Ulisse a due sensi di circolazione, con un percorso dalle superfici regolari, senza le asperità dovute alle botole dei sottoservizi, per garantire la massima sicurezza ai ciclisti. Si procederà con la scarifica del manto d’asfalto esistente per due centimetri, una nuova pavimentazione flessibile dello spessore di cinque centimetri, la verniciatura con colori antiscivolo della pista ciclabile. Saranno contemporaneamente realizzate le rampe per i diversamente abili e gli attraversamenti pedonali.”
Cosa ne è venuto fuori realmente? Lo abbiamo chiesto a Filippo Gravagno, docente di Tecnica e Pianificazione Urbanistica nell’Università degli Studi di Catania.
"Dire che una pista ciclabile si realizza mettendo un po’ di vernice a terra mi sembra eccessivo. Sarebbe più opportuno considerarlo uno spazio riservato ai ciclisti ma non è una pista ciclabile, perché altrimenti dovrebbe avere una sede propria separata dagli spazi dedicati agli altri mezzi con cui potrebbe entrare in conflitto e causare incidenti. Inoltre, dovrebbe avere un suo arredo, una serie di piccoli servizi come punti di sosta all’ombra attrezzati con delle fontanelle.
Quello che mi sembra di rilevare in questa fase è l’assenza di una strategia. Se a Catania si vuole fare un percorso progressivo in direzione della mobilità dolce, lo si deve fare per tappe ma avendo chiaro il piano sin dall’inizio: quale sarà il primo step, entro quando realizzarlo e far sì che ognuno abbia una sua autonomia funzionale.
La pista ciclabile dovrebbe avere una sua funzionalità anche rispetto ai luoghi che vuole connettere ed essere attrezzata anche per consentire uno scambio intermodale con gli altri mezzi. Per esempio, dare la possibilità ai cittadini di posare l’auto e prendere la bici, creare stazioni turistiche per l'affitto e altri servizi. Ho l’impressione che questo meccanismo la città ancora non lo abbia affrontato e, cosa più preoccupante, credo che non ne sia consapevole.
Non c’è una visione politica del processo, non c’è una guida politica, diciamolo francamente. Mi sembra di vedere di volta in volta una soluzione tecnica tirata fuori dal cilindro che magari ha preso ispirazione da altre realtà e da altri contesti dove il sistema sociale ha già radicati certi valori, avendo già fatto scelte diverse per vivere il sistema urbano".
Un modus operandi a macchia di leopardo che a Catania riguarda tanto la mobilità dolce (pedoni e bici) quanto quella alternativa (metro e autobus)?
"Prima di pensare a dove poter avviare processi del genere, bisogna porsi la questione del come. Se riservo ai pedoni un’area senza prima coinvolgere i residenti, qualsiasi azione diventa motivo di scontro con la comunità locale. Se non si trasforma lo stile di vita della comunità - che non è disposta a modificare i propri comportamenti e non è aiutata a comprendere l’importanza di questa mutazione -, non c’è nessuna struttura né chiusura coatta che può sostituirsi ai percorsi di crescita della città. Dire “dove” piuttosto che “come” è un errore concettuale di impostazione del percorso. La scarsa attenzione al "come” ha degli effetti devastanti sul “dove” e sul “cosa” andiamo a realizzare.
Intanto, spendiamo un sacco di soldi e facciamo interventi sulla città che lasciano il segno. Occorrerebbe impegnare le risorse per affrontare i problemi da una prospettiva politica e non tecnica. Invertire questi due ruoli, cioè attribuire alla funzione tecnica quella politica è un errore gravissimo perché deresponsabilizza la politica e fa assumere alla tecnica un ruolo che non le è proprio. La tecnica deve trovare delle soluzioni nel momento in cui i meccanismi sociali sono chiari mettendosi al servizio della politica: scambiare questi due aspetti può essere molto pericoloso".
Uno degli aspetti collaterali indiretti dell’incapacità di modificare alcuni comportamenti dei catanesi può essere proprio l’incidente stradale o vedere motocicli sulla pista ciclabile e ciclisti sul marciapiede?
"Una pista ciclabile ha bisogno dei suoi spazi, non è un po’ di colore messo a terra con una transenna anche perché scegliere la mobilità dolce dal mio punto di vista dovrebbe implicare l'allontanamento dei ciclisti dai gas di scarico delle automobili. Questo richiede necessariamente un investimento in un’opera, mi chiedo che senso abbia uno spazio riservato ai ciclisti in una strada dove circola un numero spaventoso di auto l’ora in termini di smog, di rischio d’incidenti e di stress.
Il piano della mobilità urbana dev’essere in grado di mettere insieme le diverse esigenze, magari per tappe ma alla fine devono comporre un unico mosaico. Questo è il nostro vero problema: non siamo in grado di costruire tasselli capaci di dare un’immagine complessiva e coerente.
L'università potrebbe farsi veicolo delle esigenze del territorio dialogando con la politica?
"Sicuramente il dialogo tra università (sia docenti che studenti) e territorio sarebbe una delle strategie per lo sviluppo della città. Per esempio, nel 2004 ha preso forma l’iniziativa Urban Centre a Villa Zingali-Tetto, un contenitore che l’università metteva a disposizione del territorio per discutere insieme. Ma nonostante gli importanti riconoscimenti, ha avuto un destino breve segnato dai tagli nazionali e dalla politica catanese incapace di capire un’iniziativa del genere".