
Quando nel marzo del 1985 Michail Sergeevič Gorbačëv divenne Segretario del Partito Comunista Sovietico, ci accorgemmo subito di alcuni dettagli, che denotavano una possibile rottura con l’apparato comunista dell’epoca e dunque con il regime moscovita, che pure l’aveva eletto.
Innanzitutto l’età, 55 anni, contro i due settantenni che lo avevano preceduto, Konstantin Černenko e Jurij Andropov.
Era come se si volesse, in tal modo, comunicare l’intenzione di rinnovare un sistema ormai datato, bisognoso di essere riformato al più presto.
Un altro particolare che saltò agli occhi fu il cappello borsalino da lui indossato, invece del tradizionale colbacco.
Fu subito interpretato come un segnale di vicinanza all’occidente, in linea con le esperienze vissute in Europa e in America.
Come membro del Politburo, il supremo organo direttivo del partito, Gorbačëv aveva, infatti, visitato la Germania ovest, il Canada, il Regno Unito e l’Italia, dove partecipò anche ai funerali di Enrico Berlinguer, segretario nazionale del PCI, stroncato da un ictus l’11 giugno 1984.
Questi viaggi influirono notevolmente nella sua formazione politica e indubbiamente furono all’origine dei profondi cambiamenti, che egli attuò quando giunse al vertice del potere.
Venne anche notata e apprezzata la presenza della moglie, Raisa Maksimovna Gorbačëva, nelle sue uscite ufficiali, come le first lady dei capi di Stato e di governo delle grandi democrazie.
Alcune di esse avevano svolto ruoli molto importanti nelle scelte politiche dei mariti, oltre ad essere diventate delle vere icone di impegno civile, come Eleanor Roosevelt, di eleganza, come Jaqueline Kennedy, di presenzialismo, come Nancy Reagan.
Quello sovietico era stato, fino ad allora, un potere prevalentemente maschile e i dittatori che si erano succeduti avevano sempre gradito non condividere la scena pubblica con nessuno, neanche con le proprie consorti.
A differenza delle altre mogli, però, Raisa non era una ingenua popolana, ma una donna affermata culturalmente e professionalmente.
Era laureata in filosofia, insegnava all’Università e dicono che incutesse soggezione nelle sue omologhe.
Nel 1953 sposò suo marito, che con lei condivise tutto.
Quando nel 1999 Gorbačëv accettò l’invito rivoltogli da Fabio Fazio di partecipare, come ospite, al Festival di Sanremo, spiegò di averlo fatto per potere pagare, col compenso di quel programma, le spese mediche della moglie, affetta da una leucemia, che pochi mesi dopo, ne avrebbe causato la prematura scomparsa.
Un’ultima considerazione, meno oggettiva delle altre, ma altrettanto importante, concerne lo sguardo di Michail Sergeevič: intenso, profondo e soprattutto limpido, trasparente, premonitore di quella glasnost, che di lì a poco, avrebbe cambiato l’Unione Sovietica e la storia.
Le dittature, lo sappiamo bene, non amano la verità, perché non amano la libertà, preferiscono nascondere, coprire, dissimulare.
Gli occhi di Gorbačëv apparivano, al contrario, sinceri, leali, credibili e, per questo, affidabili e convincenti.
Le sue dichiarazioni non erano affettate o costruite, ma spontanee, non ingannevoli, ma coerenti e veritiere.
Questo non vuol dire che tutto ciò che diceva potesse essere preso per oro colato, ma non ci volle molto a capire che quell’uomo avrebbe veramente realizzato gran parte di quanto prometteva: la democratizzazione del Paese, il ritiro dall’Afghanistan, il riconoscimento delle libertà religiose, la fine della censura.
Purtroppo l’Unione Sovietica era una realtà che da troppi anni subiva una compressione forte e ormai insostenibile.
Appena il potere centrale cominciò ad allentare i controlli, si formarono delle crepe che, dopo qualche mese, divennero falle, che inesorabilmente sgretolarono il potente impero.
Le alleanze internazionali si sfaldarono, i nazionalismi interni riaffiorarono, la crisi economica si diffuse impietosamente e perfino gli stessi collaboratori più stretti di Gorbačëv lo tradirono, organizzando il putsch di agosto del 1991.
Da allora la scena passerà a Borís Nikoláevič Él’cin e al padre della perestroika non rimarrà che rassegnare le dimissioni.
All’indomani della sua morte, l’omaggio che il mondo gli ha tributato (anche da vivo col Nobel per la pace nel 1990) ha sovrastato il tenue riconoscimento avuto in patria.
Non c’è da stupirsi: se per il resto del pianeta Gorbačëv ha rappresentato la fine di un incubo, dai Russi è sempre stato visto non tanto come lo statista che ha restituito loro la libertà, ma come l’uomo che ne ha ridimensionato il prestigio internazionale.
Quel prestigio che qualcun altro sta cercando di recuperare, ottenendo, a quanto pare, molto più consenso di lui.