Ancora una volta lucidissima la riflessione del preside dell'istituto salesiano Ranchibile di Palermo Nicola Filippone che, certo, parte dalla sua profonda cultura cattolica ed evangelica ponendovi al centro altissimi principi etici e spirituali.
Ma basterebbe invocare per i nostri governanti planetari una più banale e, se vogliamo anche cinica, ragione logica: se non ci si immunizza tutti, belli e brutti, ricchi e poveri, intelligenti e stupidi, accademici ed analfabeti, di ogni razza, colore, identità sessuale e fedina penale, il virus continuerà a mutare diventando sempre più forte, mentre quel che resta della specie umana sarà sempre più debole e cattiva perché continuerà ad armarsi contro i propri simili alzando muri e mascherine, mentre il nemico resterà invisibile e di certo più scaltro di chi dovrebbe combatterlo. (PDR)

“Quasi mai si riesce a soddisfare in pieno i bisogni primari della popolazione in un paese sottosviluppato”. Questo giudizio è tratto da un saggio di Aldous Huxley, “Sovrappopolazione”, pubblicato in una raccolta dal titolo “Ritorno al mondo nuovo”, del 1958.
Lo scrittore inglese si riferiva principalmente alle esigenze economiche, derivate dall’incremento demografico del XX secolo.
Ma la sua valutazione è applicabile anche alla situazione pandemica che stiamo vivendo, per uscire dalla quale è indispensabile che si immunizzi la maggioranza della popolazione mondiale.
E se nell’Occidente progredito, il ricorso sistematico e capillare ai vaccini sta dando buoni risultati, gli Stati poveri sono ancora molto indietro.
In Europa, Stati Uniti e Cina la percentuale dei vaccinati ha ormai superato il 60%, mentre in Africa non va oltre il 5%.
Addirittura, in alcuni Stati, quali Congo, Ciad e Burkina Faso, risulta vaccinato meno dell’1% degli abitanti.
Ciò vuol dire che, con questi ritmi, ci vorranno almeno tre anni prima che essi raggiugano la cosiddetta immunità di gregge.
Al contrario dei bisogni alimentari, urgentissimi in alcune aree del pianeta, in cui ancora si continua a morire di fame tra l’indifferenza del resto del mondo, quelli sanitari coinvolgono tutti.
E direttamente!
La pandemia ha insegnato, infatti, che un virus ad alta contagiosità, come il covid 19, non potrebbe mai rimanere isolato in una regione circoscritta del globo.
Di conseguenza, il rischio di una sua recrudescenza, magari nella forma di qualche variante resistente agli anticorpi vaccinali, rimarrà molto alto fino a quando non saremo stati tutti immunizzati.
Anche per questo (si spera non solo) le Nazioni Unite hanno messo in atto un’imponente operazione di acquisizione e fornitura di vaccini, chiamata Covax.
Essa fa parte dell’ACT-Accelerator (Access to Covid 19 Tools), una sorta di partnership tra Stati, inclusi i più indigenti, funzionale alla distribuzione di test diagnostici, terapie e vaccini anti covid 19.
Nata nell’aprile 2020 su sollecitazione dell’OMS, essa si prefigge di rendere disponibili, entro la fine del 2021, due miliardi di dosi di vaccino, di cui 1,3 miliardi per le economie in difficoltà.
L’iniziativa mira a salvare quanto più possibile vite umane, ma vorrebbe pure scongiurare gli impressionanti danni economici causati dal virus, stimati intorno ai 375 miliardi di dollari al mese.
A questa collaborazione mondiale hanno aderito: GAVI (Global Alliance for Vaccines and Immunisation), l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’UNICEF e la CEPI (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations).
Le migliori competenze del mondo concentrate in un’unica impresa, per fronteggiare la più grave emergenza del XXI secolo, aumentando l’uso equo e sostenibile dei vaccini.
Se, infatti, la campagna vaccinale ha indubbiamente salvato milioni di persone, da essa potrebbe anche scaturire una colossale speculazione finanziaria, a discapito delle società più arretrate.
Con quest’iniziativa si vogliono, invece, assicurare dinamiche di mercato sane per tutti i prodotti correlati all’immunizzazione, mirando ad una “fornitura coerente e conveniente”.
Contemperare l’innovazione scientifica e tecnologica con l’obiettivo di non escludere nessuno dai suoi benefici e vantaggi è la sfida a cui nessuno può sottrarsi.
L’Italia ha deciso di partecipare al progetto, impegnandosi a donare 45 milioni di dosi entro l’anno e 385 milioni di euro.
Attualmente il nostro Paese ne ha già inviate 1,5 milioni in Tunisia, 812 mila in Vietnam e 100 mila in Iraq. Quanto prima ne saranno spedite altre in Albania, Indonesia, Iran, Libano, Libia e Yemen per un totale di 1,8 milioni.
Le dosi rimanenti non hanno ancora avuto assegnata una destinazione, ma il Ministero degli Esteri ha diramato una nota con la quale spiega che le donazioni sono state fatte per «sostenere l’importanza di un accesso equo e universale ai vaccini, alle cure e ai test sulla base di un principio di solidarietà internazionale».
Non si può escludere che nelle prossime spedizioni ci saranno fiale di Astrazeneca, bandite dall’Europa per gli effetti gravi riscontrati dopo la somministrazione.
Se però pensiamo a quanti si sono immunizzati con esse e non hanno avuto conseguenze, incluso chi scrive, non mi sentirei di stigmatizzare questa decisione.
Intanto, mentre da noi si dibatte su chi dovrà ricevere un ulteriore richiamo, l’OMS raccomanda di non lasciare scoperto il Terzo Mondo, per non avere spiacevoli contraccolpi, causati dall’emergere di nuove varianti.
Il direttore dell’agenzia dell’Onu, Tedros Adhanom Ghebreyesus, si è così espresso: “Abbiamo urgente bisogno di cambiare le cose, da una maggioranza di vaccini che va ai Paesi ricchi ad una maggioranza che va ai Paesi poveri”.
Forse questa pandemia, alla fine, potrebbe avere il merito di “costringere” gli uomini ad una solidarietà universale, a una specie di “social catena” di leopardiana memoria, e far loro comprendere che nessuno si salva da solo.
Come disse papa Francesco il 27 marzo dello scorso anno, da una Piazza San Pietro deserta.
Il Pontefice lo ha ribadito nella sua ultima enciclica, Fratelli tutti, evocando, ancora una volta, l’immagine della barca in cui viaggia tutta l’umanità.