La libertà è stato il motivo conduttore delle cinque serate del Festival di Sanremo, a cui si è ispirato, innanzitutto, il monologo di Roberto Benigni sui settantacinque anni della Costituzione italiana.
E in effetti, i 139 articoli che compongono la nostra Carta fondamentale sono il frutto anche di una guerra di liberazione, al termine della quale l’Italia è riuscita ad affrancarsi dalla tirannide nazi-fascista.
Memorabili le parole che Pietro Calamandrei rivolse agli studenti universitari milanesi nel 1955: “Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta”.
Dunque, su questo tema, inaugurato dal premio Oscar, si è inserito lo slogan con cui Chiara Ferragni ha fatto il suo ingresso sul palco dell’Ariston: “Pensati libera”.
Frase mostrata al pubblico in sala e a casa come creazione personale e che, in realtà, avrebbe origini molto diverse e forse ben più antiche della celeberrima influencer.
Dopo di lei è stato un susseguirsi di inviti alla libertà, provenienti dai testi di alcune canzoni o dalle istantanee dichiarazioni, rilasciate da qualche cantante, al termine della sua esibizione.
Non sarà sfuggito a nessuno che gran parte delle libertà a cui si è inneggiato sono a sfondo sessuale, come del resto è stato confermato dal numero “improvvisato” da Fedez e Rosa Chemical, durante il quale la televisione italiana ha toccato livelli mai raggiunti prima.
Ovviamente non è su questo che ci si vuole soffermare anche perché, è giusto ammetterlo, mancherebbero i requisiti culturali per una valutazione competente e adeguata.
Ciò che, invece, è inquietante riguarda i messaggi che dalla più importante kermesse canora italiana sono partiti.
Che si riassumono nel pensare che la libertà consista nell’assecondare in toto la propria volontà, prescindendo da qualsiasi regola.
Ovviamente, qui non si vuole dire, né tantomeno si pretende, di dettare queste regole.
Ci permettiamo semplicemente di ricordare agli amici lettori che, sin dall’antichità, gli uomini hanno convenuto non soltanto che nessuna convivenza civile può essere garantita se non all’interno di un contesto disciplinato dalle norme.
Ma che non può esservi libertà se non sotto la legge, come afferma una nota massima latina, divenuta il motto della Polizia di Stato: sub lege libertas.
Esistono varie tipologie di legge: per secoli si è creduto nell’esistenza della legge divina, assoluta e immutabile, che in occidente era contenuta esplicitamente nel Decalogo, ma che nella cultura ellenica veniva identificata e chiamata pure “legge del cuore”, perché insita nella natura dell’uomo.
Il Cristianesimo l’ha poi definita “legge della coscienza”, entità alla quale non sarebbe male tornare a riferirsi, di tanto in tanto.
Si parla anche di legge morale, che la filosofia contemporanea ha individuato nella ragione umana, così come espresso nella “Critica della ragion pratica” di Immanuel Kant.
E ci sono le leggi scritte e approvate dagli uomini nelle sedi opportune come, ad esempio, l’Assemblea Costituente, che settantacinque anni fa ha dato all’Italia il testo con cui è iniziato il Festival e, molto più modestamente, questa riflessione.
Che desidero concludere tornando alla citazione di Calamandrei, il quale parla sì di libertà, associandola, però, al sacrificio e alla giustizia.
Sarebbero sufficienti questi due soli argini per comprendere che la libertà autentica non può essere illimitata, se non la si vuole perdere.
Del tutto.