
La morte di Javier Alfredo Miranda Romero, l’operaio peruviano, che Evaristo Scalco ha ucciso il 2 novembre scorso a Genova, trafiggendolo con una freccia scoccata dal suo arco, non è la reazione impulsiva di chi non riesce a dormire, per lo schiamazzo notturno.
Non è il gesto inconsulto di un lavoratore, che non vuole rinunciare alle sue ore di sonno, prima di riprendere le fatiche del giorno.
Non è l’atto dimostrativo di un arciere, che vuole intimidire chi l’ha infastidito - e forse anche offeso - impugnando un’arma, utilizzata finora come pratica sportiva.
E non è neppure un tragico incidente.
Probabilmente è anche tutto questo.
Ma essa è soprattutto il sintomo inquietante della scarsa considerazione che si ha oggi per la vita di un essere umano, che un tempo, invece, era ritenuta sacra da tutti.
Anche dai non credenti, che non disdegnavano quell’aggettivo, perché giudicavano l’esistenza inviolabile e, come tale, da difendere a ogni costo.
La vita si poteva sacrificare, ma per un ideale nobile: la difesa della patria, ad esempio, o di altre vite umane.
Si moriva per la giustizia, la libertà, la fede.
Adesso si è uccisi per futili motivi.
Anni fa, a Palermo, venne massacrato di botte Simone La Mantia, dinanzi agli occhi disperati della moglie e a quelli increduli della figlioletta di 4 anni, perché aveva sfiorato accidentalmente l’automobile del boss del quartiere.
A Rimini, Andrea Severi, un clochard di 44 anni, rischiò di morire, quando un gruppo di ragazzi ventenni decise di appiccargli il fuoco per divertimento.
Vicenda che ricorda drammaticamente il gioco macabro del cavalcavia, che adolescenti insoddisfatti praticavano, scagliando sassi contro chi viaggiava in autostrada. Perse la vita Maria Letizia Berdini, da poco convolata a nozze, colpita al viso nei pressi di Tortona.
E che dire di Aldo Naro? Il giovane medico di San Cataldo, pestato a morte in una discoteca, una sera di carnevale, con una dinamica mai del tutto chiarita.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, lo interrompiamo ricordando Willy Monteiro Duarte, il ventunenne massacrato nel 2020 a Colleferro, per essere intervenuto in difesa di un amico.
Per l’altruismo dimostrato dal ragazzo, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli ha conferito la medaglia d’oro al valor civile alla memoria.
In alcuni dei casi riportati, la giustizia non ha prodotto risultati soddisfacenti, o per non essere riuscita a ricostruire esattamente l’accaduto e quindi a individuare con precisione i responsabili, o per non avere inferto ai colpevoli le pene severe che ci si aspettava.
Ma la questione non è meramente giudiziaria, bensì culturale.
Non si può negare, infatti, che nella crisi di valori di cui spesso si parla, rientra anche la vita umana.
Avere confuso la dignità con la qualità ha ingenerato pesanti equivoci, che hanno sconvolto le categorie antropologiche, fino a far pensare che, a determinate condizioni, la soppressione di una vita sia un diritto.
Può una scelta drammatica e tormentata, ancorché ritenuta in coscienza inevitabile, essere pensata come diritto?
Ammetto di non sapere rispondere.
Perché quando ti trovi sul crinale che c’è tra la vita e la morte, ogni ragionamento si rivela inadeguato e non ti rimane che avere rispetto profondo nei confronti di chi soffre e delle scelte da lui compiute.
Ma recuperare il senso e l’inviolabilità della dignità umana, presupposto sostanziale della Costituzione italiana, sancito anche dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è un passaggio imprescindibile per la convivenza civile.
Rinunciarci significherebbe assumersi una pesante responsabilità, dalle quali potrebbero discendere conseguenze molto perniciose.
Alfredo Miranda Romero era diventato padre 24 ore prima di morire e forse lo schiamazzo da lui provocato era il suo modo di festeggiare il lieto evento.
Un giorno qualcuno dovrà spiegare al bambino come e perché è morto suo padre.
E non sarà facile.