
“Di cosa ha paura oggi Fabrizio De André?”
“Sicuramente della morte, non tanto della mia che, in ogni caso, quando arriverà, se mi darà il tempo di accorgermene, mi farà provare la mia buona dose di paura, quanto della morte che ci sta intorno, dello scarso attaccamento alla vita, che noto in molti dei miei simili, che si ammazzano quotidianamente per dei motivi sicuramente molto più futili di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco e questo, sinceramente, non riesco a capirlo”.
Quest’intervista, rilasciata dal celebre cantautore genovese a Vincenzo Mollica più di vent’anni fa, mi è venuta in mente in questi giorni, funestati dall’assurda morte di Alika Ogorchukwu, massacrato a Civitanova Marche.
In realtà, quella dell’ambulante nigeriano è solo l’ultima incredibile storia, che si conclude tragicamente.
Ormai, rischiamo di assuefarci a notizie come questa, in cui esseri umani perdono la vita, perché altri esseri umani gliela tolgono, senza un motivo, o comunque per una ragione che non può mai giustificare un delitto.
Si può morire viaggiando nel traffico caotico di una città, magari perché qualcuno ti striscia la fiancata o ti soffia un parcheggio, di cui eri affannosamente alla ricerca.
Ti possono fare fuori durante una lite condominiale, una partita di calcio, una serata in discoteca o mentre stai prendendo un gelato con gli amici.
Puoi essere ucciso per il colore della pelle, l’orientamento sessuale, un amore finito o non corrisposto, un pregiudizio sociale, o semplicemente perché ti trovi a passare nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.
Ad ammazzarti possono essere i tuoi figli o i tuoi genitori, i tuoi fratelli o gli amici fraterni, tuo marito o tua moglie, l’amante, i colleghi, i vicini di casa.
I lettori sapranno associare a ciascuna di queste circostanze, un nome, un volto, una storia.
La vicenda di Alika è ancora più raccapricciante e sconcertante, in quanto il delitto si è consumato sotto gli occhi di alcuni passanti che, anziché intervenire per scongiurare il peggio, hanno preferito filmare il pestaggio con un cellulare.
Si tratta di un comportamento pericolosamente patologico, tanto più che gli autori dei video non hanno espresso alcun rammarico o manifestato il benché minimo pentimento.
Hanno piuttosto ribadito la loro scelta, sostenendo di essere stati di grande aiuto alle indagini e di avere, quindi, aiutato la polizia ad identificare l’assassino.
Non riflettendo che, se qualcuno di loro avesse difeso il malcapitato, o avesse comunque agito per bloccare l’aggressore, non ci sarebbe stata nessuna indagine.
Della risposta di De André mi colpisce la sua considerazione sullo “scarso attaccamento alla vita”, che è il vero tema su cui ci si dovrebbe concentrare.
Mi rendo conto che la materia è così complessa da non potere essere affrontata esaustivamente nello spazio di quest’articolo.
Ma abbiamo il dovere di lanciare l’allarme e di sottoporlo a chi ha responsabilità specialistiche e istituzionali.
Io credo che, da un po’ di tempo, ciascuno di noi avverta una sensazione spiacevole, come di chi capisce di stare inesorabilmente precipitando nel baratro e non riesce a impedirlo.
L’individualismo ci ha resi smarriti dal vero, estraniati da quanto succede attorno a noi, incapaci di pensare, parti inconsapevoli di un ingranaggio mostruoso e incontrollabile, in una parola: alienati.
E sull’alienazione ci ha lasciato pagine molto intense e profetiche Pier Paolo Pasolini.
Non so se egli avesse ragione, quando ne individuava la causa nel neocapitalismo, che ha distrutto la civiltà contadina e nella perdita del sentimento religioso, soppiantato dalla “nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo”.
È, però, ormai certo che quanto previsto dallo scrittore negli anni Sessanta e Settanta, si sta drammaticamente avverando: “Come polli d’allevamento, gli Italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere [...] tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione [...] L’Italia di oggi è distrutta esattamente come l’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra macerie di valori: valori umanistici e, quel che più importa, popolari”.
Allora egli non fu ascoltato e forse neppure creduto, oggi tempo ce n’è molto poco, speriamo che quel che rimane non sia sprecato.