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Gentilezza per una nuova fratellanza: “Sourtout pas trop de zèle!”

30-07-2022 06:55

Nicola Filippone

Cronaca, Focus,

Gentilezza per una nuova fratellanza: “Sourtout pas trop de zèle!”

La bellezza salverà il mondo

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Qualche domenica fa sono entrato nella Cattedrale di una città d’arte del nord Italia, per partecipare alla Santa Messa.

Durante la celebrazione noto una sontuosa statua della Vergine, in bronzo, collocata sull’altare maggiore.

Terminata la liturgia, poiché occupavo una panca della prima fila, mi avvicino subito alla scultura, per osservarla meglio e ammirarne le fattezze.

All’improvviso odo la voce zelante di uno zelante sacrista, che mi intima di fermarmi: “Lei non può stare nel presbiterio!”.

 

Gli faccio un cenno, eloquente come siamo capaci noi meridionali, col quale gli dico contemporaneamente due o tre cose: “Stia tranquillo, il tempo di vedere la Madonna ed esco”.

Ma lo zelante sacrista non desiste e ribadisce: “Lei non può stare nel presbiterio!”.

In effetti “presbiterio” deriva da “presbitero”, che in greco vuol dire “anziano”.

Quello dello zelante sacrista poteva, quindi, essere un gesto cortese, col quale intendeva dirmi: “Siccome lei non è anziano, qui non ci può stare”.

Stando così le cose, l’avrei pure dovuto ringraziare.

 

In realtà, col tempo, da “presbitero” si è originato il termine “prete”, pertanto quel luogo mi era interdetto, non essendo io un prete.

Siccome, diceva un grande santo, che nella Chiesa chi comanda può sbagliare, ma chi obbedisce non sbaglia mai, ricorro di nuovo alla sicula prossemica con la quale gli chiedo scusa e ritorno nel rango che mi spetta.

Ovviamente lo accosto, anche per giustificare la mia insolente intraprendenza, e gli chiedo notizie della statua: “A quale periodo risale?”.

Lo zelante, mal dissimulando un certo imbarazzo, mi risponde: “Non troppo antica e neanche troppo moderna”.

Avrei potuto accontentarmi della zelante risposta, ma ho voluto insistere e così ho replicato: “Chi è l’autore?”.

A questo secondo interrogativo, l’imbarazzo diviene ancor più manifesto e, dopo qualche istante per pensare, arriva la risposta: “L’hanno restaurata da poco”.

 

Allora gli domando di un reliquiario, posto ai piedi della Madonna: “Di chi sono le reliquie custodite?”.

E finalmente lo zelante, riacquista coraggio e prestigio e, tirato un lungo, soddisfatto e compiaciuto respiro di sollievo, con cui mi sta comunicando che questa la sa, mi dice: “Di santi”.

Impietosamente lo incalzo: “Di quali santi?”.

E a quel punto, dismessi i panni dello zelante e indossati quelli dell’entusiasta amministrativo (Dostoevskij docet!), sentenzia: “Lei nel presbiterio non ci può stare!” e, dopo avere transennato l’area, mi volta le spalle e se ne va. 
 

A scanso di equivoci, chiarisco subito che non ce l’ho con quel pover’uomo, che eseguiva soltanto degli ordini e non era tenuto, in base alla mansione che svolge, a soddisfare la mia curiosità.

 

Mi chiedo, piuttosto, se non sia il caso di superare certi schematismi e rendere ormai accessibile ai visitatori, e soprattutto ai fedeli, ogni angolo di una chiesa.

 

È vero che molti, adesso, entrano in un tempio cristiano più per girarlo che per pregare.

Ma è anche vero che, da quando il numero di praticanti è drasticamente diminuito, si rende necessaria una nuova evangelizzazione.

 

Questa non può che iniziare con l’accoglienza, la gentilezza, il garbo, la cortesia, premesse indispensabili di una ritrovata fratellanza.

 

La fruizione dell’arte sacra, poi, non è mai stata un mero godimento estetico, ma un modo col quale l’uomo può vivere, o riscoprire, il suo rapporto con l’Assoluto e, dunque, col Trascendente.

 

Le forme visibili di un’opera d’arte cristiana sono funzionali a percepire la invisibile presenza di Dio.

 

Sebbene l’indifferenza religiosa, figlia di una cultura positivista e nichilista, sia ormai l’atteggiamento più diffuso, specialmente tra le giovani generazioni, il desiderio del sacro non si è estinto.

 

Gran parte dell’insoddisfazione esistenziale, responsabile di molti disagi e delle loro conseguenze, è riconducibile all’egemonia della materia sullo spirito, contraria alla natura stessa dell’uomo. 
 

Il notevole sforzo, compiuto finora da papa Francesco, tende anche a riempire questa mancanza, tornando alla semplicità del Vangelo, al profumo della carità contro il “puzzo” della corruzione, all’attenzione per gli ultimi (anziani, immigrati, sofferenti), alla comunione ecclesiale, al primato della bellezza.

 

Il suo lavoro non è ancora terminato, né può riguardare soltanto lui.

 

Il coraggio e il sacrificio, mostrati in questi anni di pontificato, dovrebbero essere di esempio e di sprone per tutti i pastori e, in generale, per tutti i cristiani.

 

Il Vescovo di Roma, impegnato nei giorni scorsi in un faticoso viaggio apostolico in Canada, ha ribadito l’urgenza di una presa di coscienza e di un cambiamento, esortando a non scoraggiarsi dinanzi ai mali e alle difficoltà e ad aspettare “tempi nuovamente fecondi, in cui possiamo lasciare alle spalle tanta sterilità e tanta morte e rimettere al centro Gesù, il Crocifisso Risorto”. 


Nel frattempo, convinti che la bellezza salverà il mondo, come sosteneva il succitato Autore, mettiamola a disposizione di chi vuole assaporarla e ricordiamoci del consiglio dato da Talleyrand al Congresso di Vienna: “Sourtout pas trop de zèle!” (Soprattutto non troppo zelo!).

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