È noto e dichiarato: a noi interessano le vicende locali, localissime, siamo nati per questo, è la nostra mission da sempre scovarle e raccontarle, provando a svelare le dinamiche del potere (locale) per consentire alla cosidetta Pubblica Opinione (locale) di farsene una propria di opinione, nella speranza che prima o poi diventi Società Civile (locale): c'è tempo e la strada è lunga.
Ma quando le vicende estranee al nostro perimetro preferito rischiano di caderci addosso, allora dobbiamo in qualche modo occuparcene, magari con fantasia, in maniera laterale, possibilmente non banale ed in genere al di fuori del main stream.
La crisi di governo con l'esplosione dell'intero parlamento è una di queste occasioni e la lettura dei fatti non è semplice e neanche scontata.
L'origine della faccenda ormai non ha più molta importanza, se Conte abbia fatto bene o male e se abbia in qualche modo capito quello che avrebbe comportato importa ancora meno: la frittata ormai è fatta e non è chiarissimo quanto qualcuno sia stato il classico utile idiota di un progetto che potrebbe avere coordinate ancora più chiare tra qualche ora o giorno.
Proviamo ad immaginare lo scenario sino a qualche settimana fa con un destino che sembrava segnato: ad appena 10 mesi dalla scadenza naturale della legislatura, si profilava l'inevitabile affermazione delle destre a trazione meloniana. Sembrava scontato.
Se infatti il governo di unità nazionale, sorto per fronteggiare le gravi emergenze in corso, avesse continuato il suo operato apparentemente ragioneristico in uno stato di stanchezza crescente e necessariamente privo di prospettive, i risultati dei sondaggi avrebbero continuato a certificare ad ogni rilevazione la crescita di Meloni, la scomparsa dei 5Stelle e l'incapacità del PD di superare la sufficienza.
Nelle ultime ore gli elementi che paiono più significativi sono due e forse tre:
- la replica del presidente dimissionario Mario Draghi alle dichiarazioni di voto dei partiti al Senato;
- l'uscita da Forza Italia di due ministri ed esponenti di peso quali Maria Stella Gelmini e Renato Brunetta;
- l'atteggiamento sorridente del ministro leghista Giorgetti al fianco del premier.
Il primo punto è noto ed ha già fatto molto discutere: il discorso di Draghi è stato durissimo, sin quasi ad apparire "impolitico", ha attaccato a muso duro apparendo a tratti che volesse scientemente provocare quello che poi è successo, l'uscita dall'aula delle componenti del centro destra che prima facevano parte della maggioranza, Lega e Forza Italia, determinando così irrevocabilità delle sue dimissioni e lo scioglimento delle Camere.
La questione è quanto toni e contenuti di quel discorso decisamente inusuale fossero il frutto di una personalità non avvezza ai compromessi quanto, al contrario, il grimaldello per scardinare uno scenario che, come detto sopra, sembrava ormai scontato ed abbisognava di un colpo di teatro o di un deus ex machina per rivoltare un destino prima segnato.
In altre parole, se si fosse arrivati tra dieci mesi alla scadenza naturale della legislatura con questo costante logorio di una campagna elettorale strisciante, quanto sarebbe stato evitabile un premierato Meloni al quale si sarebbe arrivati senza avere il tempo di valutarne le implicazioni?
Senza entrare nel merito delle appartenenze e sulla qualità del progetto politico che si profila a destra, è noto che l'ipotesi di un simile scenario risulterebbe sgradito, per dirla con un eufemismo, a molti, troppi.
Quindi, troppo navigato ai massimi livelli un personaggio come Draghi per commettere un'errore così grossolano di mettersi all'angolo da solo senza avere già in testa un piano b.
Il secondo punto riguarda l'immediata uscita da Forza Italia di due esponenti storici del movimento berlusconiano, che ne hanno fatto la storia e ne hanno rappresentato sino a qualche ora prima la punta avanzata ricoprendo addirittura il ruolo di ministri nel governo Draghi.
Maria Stella Gelmini e Renato Brunetta hanno infatti lasciato Berlusconi immediatamente nel momenti un cui questi ha deciso di seguire la Lega nell'abbandono dell'aula sulla fiducia.
Anche in questo caso difficile pensare che si possa trattare di una stizza estemporanea, quanto piuttosto l'esito finale di un percorso che probabilmente prevede un qualche paracadute e che quindi avrebbe come base un progetto già in corso.
Il terzo punto riguarda l'osservazione anche prossemica dell'atteggiamento tenuto da Giancarlo Giorgetti durante la seduta al Senato: è stato sempre accanto al Premier, quasi a sostenerlo, ed è stato il primo, al termine della sua durissima replica che ha letteralmente dileggiato la Lega salvinaiana, ad avvicinarsi a Draghi con una calorosa stretta di mano ed un sorriso aperto e sornione. Distonico per chi appartiene al partito che platealmente con quel discorso veniva spinto, insieme a Forza Italia, fuori dal perimetro della maggioranza.
Tre punti che, letti insieme, rendono plausibile pensare che quanto accaduto non sia il frutto inatteso di grossolani errori di grammatica politica, quanto il possibile esito finale di un progetto che ha regia ben meno sprovveduta di quello che si vorrebbe far credere.
In pratica, si è voluto, forse dovuto, accelerare lo sgretolamento che era già in atto della maggioranza di unità nazionale che stava dando troppo spazio all'unica forza rimasta all'opposizione, Fratelli d'Italia, che solo per questo rischiava di canalizzare su di se tutta l'insoddisfazione crescente a livello popolare.
La mossa di Draghi, che determina la crisi e le elezioni anticipate, spariglia tutto e mette il paese di fronte alla reale prospettiva di ritrovarsi un futuro governato per la prima volta da destre estreme, sovraniste e populiste, con le inevitabili ricadute sul piano internazionale e, quindi, interne nel momento probabilmente più delicto e pericoloso della storia repubblicana.
Di fronte a questa prospettiva, non sarebbe peregrino pensare che possa già essere predeterminata una "discesa in campo" dello stesso Draghi, con una lista che ne riproponga la premiership, a capitanare una coalizione progressista e riformista che riunisca, oltre al PD ovviamente, tutte le componenti moderate, centriste e liberali, con anche tutte le forze presenti sul territorio a partire dai mille sindaci e centinaia di associazioni ed organizzazioni che hanno sottoscritto l'appello a Draghi en che per ovvi motivi non possono trovare spazio in quel centro destra troppo virato a destra.
Una sorta di riproposizione, aggiornata e corretta, dell'operazione "Ulivo" che portò Romano Prodi nel 1996 a sgominare quella che era considerata l'invincibile armata di Berlusconi trionfatrice nel '94.
In questo scenario, con la confusione che c'è e la crescente paura di salti nel buio, non sarebbe difficile pensare che una lista "Draghi Presidente" possa arrivare ad un buon 20%, che sommato ai voti del PD, satelliti vari e liste di sindaci e società civile nelle varie circoscrizioni, potrebbe ragionevolmente ottenere una significativa maggioranza che chiuderebbe la partita.
Come nel '96, appunto.
Dopo qualche mese o settimana di governo Draghi conseguente alla vittoria ed insediato per rispetto al verdetto popolare, sarebbe plausibile prospettare, di fronte ad una larga e consolidata maggioranza parlamentare, che il presidente della repubblica Sergio Mattarella possa finalmente ritenere concluso il suo lunghissimo mandato addirittura bis e decidere, finalmente per lui, di presentare le agognate dimissioni.
A quel punto sarebbe scontato il nome del successore: Mario Draghi.
E da lì, finalmente, un "governo politico", eletto altrettanto finalmente dal popolo sovrano, quello stesso popolo che da decenni dà segnali di stanchezza e protesta e che adesso è davvero chiamato alla responsabilità per garantire il ritorno ad un sistema dell'alternanza democratica che possa far riprendere al paese la strada della crescita e del benessere condiviso e sostenibile: che sia la volta buona?
Suggestioni? Vedremo.