
Lo scorso 8 marzo, al termine di un’assemblea della Conferenza Episcopale Siciliana, è stato revocato il provvedimento che, da due anni, non consentiva lo svolgimento delle processioni.
La ragione era riconducibile alle norme anticovid, per contenere la diffusione del virus.
La fine dello stato d’emergenza, decisa dal governo nazionale, sta gradualmente riportando il Paese alla normalità.
I Vescovi siciliani hanno, tuttavia, ribadito la necessità di adottare le dovute precauzioni, a causa del numero di contagi, ancora abbastanza elevato.
Le funzioni della Settimana Santa potranno così avere luogo anche all’aperto, nell’alveo di una tradizione, ricca di emozioni e suggestioni, che quasi sicuramente risale al dominio spagnolo, per le sue affinità con i riti che si celebrano tuttora nella penisola iberica e nell’America latina.
Passione e morte di Cristo hanno, comunque, esercitato nel tempo un forte fascino, che ha ispirato le più antiche rappresentazioni medioevali, come le Laudi di Jacopone da Todi o le prime pratiche della Via Crucis.
Nella nostra isola, esse hanno trovato un terreno particolarmente favorevole, forse per quella connaturata sensibilità dei Siciliani nei confronti della morte, evocata pure da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo: “Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorzonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana”.
Ciò che appare un tentativo di ritorno alla vita ordinaria, con il ripristino di secolari consuetudini religiose e folcloriche, è purtroppo inficiato dalle notizie che provengono dall’Ucraina.
E soprattutto dalle immagini sconvolgenti di esseri umani assediati e affamati, di partorienti sanguinanti, di bambini piangenti e terrorizzati.
Ma anche di città fantasma, di palazzi sventrati e incendiati, di ponti divelti e di strade cosparse di cadaveri, di fosse comuni con decine di civili trucidati, di monumenti protetti da cellophane e sacchi di sabbia, di opere d’arte trasferite da chiese e musei a rifugi sotterranei.
Tra di esse il Cristo di Leopoli, splendida scultura lignea del XV secolo, che dalla Cattedrale armena è stato tratto al sicuro in un posto segreto.
Alcuni fedeli, che lo reggevano amorevolmente sulle proprie braccia, si sono commossi, dichiarando di stare rivivendo una situazione già avvenuta durante l’occupazione nazista.
Allora, infatti, la statua fu salvata dalle grinfie degli invasori e conservata sino alla fine del conflitto.
Il Cristo che esce dalla chiesa, ripreso dalle televisioni di tutto il mondo, ricorda le statue dei Misteri che, in questi giorni, escono dalle nostre chiese, per attraversare le vie delle città, tra l’ammirazione e il compiacimento di curiosi, devoti e turisti. Esso è divenuto l’emblema di un popolo martoriato, vittima di una violenza efferata, che molti non riescono, ancora, a spiegarsi.
Parafrasando Karl Rahner, potremmo dire che gli Ucraini sono diventati, così, i Crocifissi del XXI secolo.
Anch’essi provano, oltre agli effetti distruttivi della guerra, il dramma dell’abbandono e dell’ingiustizia.
Nel corpo nudo e macilento del Cristo armeno, possono essere identificati le migliaia di caduti di entrambi gli schieramenti.
Il suo volto morente, con le palpebre abbassate e la bocca socchiusa, può sovrapporsi ai volti sofferenti dei tanti feriti, alcuni dei quali, probabilmente, non sopravviveranno alle conseguenze dei combattimenti.
Fëdor Dostoevskij, scrittore russo, esponente immenso di quel popolo, che oggi viene demonizzato per le crudeltà perpetrate, al principe Myskin de L’idiota, che si trova davanti ad un’icona della crocifissione, attribuisce la seguente riflessione: “Contemplando quel quadro, la natura appare come una belva enorme, implacabile e cieca, oppure, per usare una espressione più esatta, anche se strana, come una macchina gigantesca nuovissima, che senza pensarci ha afferrato, dilaniato e inghiottito, senza provare alcuna compassione, un essere sublime e inestimabile, lo stesso essere che da solo valeva più della natura e di tutte le sue leggi, più della terra che era stata creata forse solo per consentire la manifestazione di quell’essere!”.
Dall’attenzione e fierezza con cui il Crocifisso armeno veniva spostato dalla sua sede, si percepiva la speranza dei portatori di associare la loro sorte a quella di colui che, dopo aver tanto patito, il terzo giorno è risorto.
L’auspicio è che, al più presto, il Cristo di Leopoli possa tornare sull’altare ligneo del Golgota, tra le sculture della Madonna e della Maddalena, a riunire tre confessioni (armeni, ortodossi e cattolici) e tre nazioni (l’armena, l’ucraina e la polacca) come fa da cinque secoli.
Vorrebbe dire la fine della guerra e, la ripresa di un popolo, che da cinquanta giorni difende strenuamente se stesso e il proprio suolo e adesso desidera ardentemente la pace.