L’articolo 11 della nostra Costituzione, da molti considerato una punta di diamante del diritto, recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Forse non tutti sanno il travaglio che questa norma ha dovuto affrontare, tra il dicembre del 1946 e il dicembre del 1947, prima di vedere la luce.
Nella sua prima stesura, infatti, era così configurata: “La Repubblica rinunzia alla guerra come strumento di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizioni di reciprocità, le limitazioni di sovranità necessarie alla difesa e alla organizzazione della pace”.
Questa versione lasciava scontenta gran parte dell’Assemblea, anche se con motivazioni diverse.
Alcuni, ad esempio, lamentavano il fatto che si specificasse il tipo di guerra a cui l’Italia rinunciava, quella “di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli”, ammettendo implicitamente tutte le altre.
Ma il punto più controverso era la scelta del verbo migliore da utilizzare, visto che “rinunzia” non risultava sufficientemente efficace.
Invero, si rinunzia a ciò che si ha, spesso un bene o un diritto, come il trono, l’eredità, la libertà.
Pertanto, si propose di sostituirlo con “condanna”, ma quest’ultima espressione ha una valenza più etica che giuridica e, per questo, fu scartata.
Si pensò, allora a “rifiuta”, termine che venne parimenti respinto, in quanto si rifiuta quanto si riceve o viene offerto.
E finalmente, nella seduta del 24 marzo 1947, si scelse “ripudia”, che, oltre a riassumere tutti i significati precedenti, rafforza ulteriormente la contrarietà alla guerra, escludendo finanche l’ipotesi, il solo pensiero, che la Repubblica possa ricorrervi per risolvere le controversie internazionali. Nelle riunioni successive, l’articolo fu completato, fino a giungere alla versione definitiva succitata.
Dopo questa necessaria, sia pur succinta, rievocazione, chiediamoci se negli ultimi settantacinque anni, quest’articolo sia sempre stato rispettato oppure no.
Per quanto non sia un giurista, ritengo di poter affermare che, in linea di massima, ciò sia accaduto.
Basti pensare che, dall’Unità nazionale, l’Italia non aveva mai vissuto un periodo di pace così lungo.
Vero è che le sue Forze armate, più volte, sono state impegnate all’estero, ma in attività di peacekeeping e, generalmente, su mandato dell’ONU o come membri della NATO.
Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, sono state, però, sollevate delle critiche nei confronti di certe scelte del Governo e, negli ultimi giorni, ha suscitato molte polemiche la decisione di innalzare al 2% del Pil le spese militari.
Giuseppe Conte ha addirittura messo in discussione l’appoggio del suo movimento all’attuale esecutivo.
Cominciamo dall’inizio e cioè dall’invio di armi italiane agli Ucraini e interroghiamoci sulla compatibilità di tale scelta con l’articolo 11 della Costituzione italiana.
Attenzione, non sulla legittimità, anche morale, di aiutare uno Stato aggredito a difendersi dall’invasore, che condividiamo appieno. Ma sulla conciliabilità che ciò avvenga tramite la fornitura di armi e il nostro dettato costituzionale.
Pur ribadendo, ancora una volta, di non essere un esperto di diritto (sull’impiego del verbo “ripudia”, comunque, incisero anche i linguisti), ritengo che essa possa sussistere solamente dopo avere compiuto ogni sforzo diplomatico per far tacere le armi.
Probabilmente non sono bene informato, ma non mi risulta che, dallo scorso 24 febbraio, al nostro Governo siano ascrivibili atti concreti in tal senso.
Si sono mossi Macron, Scholz, Erdogan, Bennet, ma nessuna iniziativa è partita dal nostro Presidente del Consiglio o dal Ministro degli Esteri.
Anzi, durante il collegamento di Zelens’kij con Montecitorio, il Presidente ucraino, che probabilmente conosce l’articolo 11 e ha opportunamente calibrato il suo intervento sull’uditorio, non ha usato toni bellicosi, mentre Mario Draghi ha parlato di armi, con una disinvoltura, che ricordava il piglio aggressivo di qualche politico d’oltreoceano suo amico.
Il ripudio della guerra è anche un fatto culturale, come affermò Palmiro Togliatti nella Sottocommissione della Costituente, il 3 dicembre 1946.
Secondo il leader comunista occorreva “chiarire la posizione della Repubblica italiana, di fronte a quel grande movimento del mondo intero che cerca di mettere la guerra fuori legge […] in particolare deve essere sancito nella Costituzione italiana per un motivo speciale interno, quale opposizione cioè alla guerra che ha rovinato la Nazione”.
Apparteniamo ancora a quella cultura o l’abbiamo abiurata?
Quanto all’aumento delle spese militari, valutiamone l’opportunità, mentre ancora ci interroghiamo su come riprenderci da una pandemia, che ha messo in ginocchio l’economia mondiale.
Inoltre, può essere banale ricordarlo, ma quando si investe un capitale, si cercherà dopo di farlo fruttare.
Per recuperare i 12 miliardi in più, spesi ogni anno per le armi, esistono solamente due modi: usarle o venderle.
Si potrà ribattere che ce lo chiedono gli alleati.
Ma quando l’Italia aveva una politica estera di prestigio, anzi, quando l’Italia aveva una politica estera, la volontà degli alleati era sempre così cogente?
Il lodo Moro fu condiviso con gli Americani?
La famosa notte di Sigonella sarebbe ripetibile al giorno d’oggi?
Ai posteri l’ardua sentenza.