Il referendum abrogativo promosso dai Radicali ha già raggiunto oltre 700 mila firme a fronte delle 500 mila richieste per arrivare al voto.
Il dibattito è altissimo e attiene a questioni essenziali della vita umana e dei rapporti sociali e civili.
Le posizioni all'interno del giornale sono diverse e contrapposte, e per questo si ritiene utile contribuire ad un dibattito che si apre al contributo di chiunque voglia partecipare.
Cogliamo quindi l'occasione che ci offre, con la sua rubrica settimanale su Sudpress, il preside dell'Istituto salesiano Ranchibile di Palermo Nicola Filippone, che sviluppa la sua riflessione come al solito in maniera non scontata, affermando, lui cattolico osservante ed "insegnante", un approccio laico, facendo cioè discendere la sua contrarietà all'eutanasia ad una scelta di amore per chi si trova in una condizione di non ritorno e che, nella sua visione, si dovrebbe assistere con la vicinanza e l'assistenza sino allo spegnimento naturale, senza accanimento terapeutico ma neanche intervento risolutivo.
Tema delicatissimo, che ci tira fuori dalla cronaca spicciola e ci pone innanzi all'enormità delle responsabilità di ciascuno di noi, partendo dal presupposto irrinunciabile del rispetto delle opinioni di chiunque. (PDR)
Dopo il ddl Zan, momentaneamente accantonato, un altro tema scottante di bioetica torna ad animare il dibattito politico italiano: l’eutanasia.
Sono infatti state raggiunte le 500 mila firme, previste dalla Costituzione, per lo svolgimento di un referendum abrogativo.
La norma di cui si chiede la cancellazione è l’art. 579 del Codice penale sull’omicidio del consenziente.
Si vorrebbe cioè depenalizzare l’uccisione di una persona che chiede di essere uccisa, a meno che essa non sia minorenne, inferma di mente o non abbia espresso il consenso, previa costrizione o inganno.
Praticamente significa che se qualcuno oggi mi chiedesse di essere ammazzato e io l’assecondassi, rischierei una condanna da sei a quindici anni, se al referendum vincessero i sì, non rischierei più nulla, tranne che non mi trovassi in una delle situazioni appena richiamate.
Sono molte le riflessioni che la vicenda suggerisce.
Innanzitutto il fatto in sé: chiediamoci se possa mai ritenersi ammissibile l’eliminazione fisica di un essere umano, sia pure su sua richiesta.
Non voglio essere banale e so che probabilmente ripeterò quanto già chiosato da altri commentatori più autorevoli di me.
Ma, di fatto, ciò indicherebbe, da ora in poi, la legittimazione dell’omicidio.
Mi chiedo, inoltre, e chiedo alle migliaia di firmatari: come dovrei comportarmi se vedessi qualcuno in procinto di togliersi la vita?
Quale epilogo dovrebbe avere la classica scena del disperato sul cornicione di uno stabile, deciso a buttarsi giù?
Non solo non dovrei tentare di salvarlo, ma, in un certo senso, dovrei agevolarlo nel suo intento, magari spingendolo io stesso?
E se mi accorgessi di chi ha ingoiato un intero flacone di barbiturici?
Mi spetterebbe soccorrerlo o assecondare la sua volontà?
La radicalizzazione della libertà ci porta dentro circostanze paradossali, stridenti con quelle che da secoli consideriamo delle elementari norme etiche.
Se proprio non vogliamo più parlare di sacralità della vita umana, di dono prezioso e inestimabile, conserviamo almeno la consapevolezza della sua indisponibilità.
Quest’ultimo è un concetto laico, che trova conferma nel fatto che la presunta disponibilità possa essere espressa solamente in negativo. Io posso, cioè, decidere la fine della mia vita, sopprimendola, ma non l’inizio.
Non esiste al mondo chi possa dire di essere voluto nascere!
Ovviamente le ragioni del movimento referendario concernono prevalentemente chi, non accettando più la condizione fisica nella quale si trova o non sopportando più le sofferenze che prova, desidera morire.
Si tratta di situazioni estremamente delicate, che afferiscono alla sensibilità personale di coloro che vi si trovano e dei loro familiari.
Esse non possono, pertanto, né devono dare adito ad alcun genere di giudizio, soprattutto di condanna.
Desidero, però, riportare la mia esperienza personale, di figlio unico, che ha assistito entrambi i genitori sino al naturale spegnimento, avvenuto per tutt’e due dopo pesanti sofferenze, dovute al Parkinson e agli effetti di una trombosi.
Inutile dire che gli interrogativi sul senso di quel dolore, specialmente quando si arriva allo stremo delle forze, sono numerosi e angoscianti.
E lo dico anche da credente!
Ma, ancora oggi, ritengo che esse siano state un’irripetibile occasione di amore, che ho potuto riversare sui miei cari, in casa e in ospedale, fasciando le piaghe, cambiando il pannolone, lavandoli, imboccandoli, alzandoli dal letto e coricandoli, rinunciando al tempo libero e, negli ultimi giorni, tenendo semplicemente la mano o carezzandoli.
E questo non è egoismo, né ostinazione ad averli ad ogni costo, ma amore, il quale ha una forza terapeutica e lenitiva che, quando si giunge ad un certo stadio, rimane l’unica possibile.
D’altro canto, faccio fatica ad includere tra le azioni altruiste quelle che mirano a togliere la vita di qualcuno, per quanto in preda ai patimenti.
Ciò non vuol dire che essi si debbano prolungare ad oltranza, accanendocisi con chi non ha più speranza di riprendersi.
Forse può aiutare la nostra riflessione tenere presente una distinzione fondamentale tra lasciare e far morire.
Solo il secondo caso si configura come eutanasia, in quanto si deve compiere un atto concreto per provocare la morte come, ad esempio, staccare la spina o, addirittura, iniettare una sostanza letale.
Nell’altra situazione, invece, basta cessare le terapie, come accadde a Giovanni Paolo II, il quale rifiutò l’ultimo estremo ricovero sussurrando: “Lasciatemi tornare alla Casa del Padre”.
Non penso ci sia qualcuno che consideri suicidio assistito la scelta del venerato pontefice.
Far passare il messaggio che la dignità della vita coincida con la sua qualità e che, di conseguenza, essa non sia sempre meritevole di essere vissuta, rischia di incoraggiare una inquietante cultura della morte, che potrebbe aprire - o riaprire! - maglie pericolose e riproporre scenari sinistri che credevamo definitivamente superati.