Lo scorso 7 aprile avevamo chiesto chiarezza e, purtroppo, l’abbiamo avuta.
A spese di chi, ancora una volta, ha perso la vita: Camilla Canepa, diciottenne genovese che, dopo la somministrazione di una fiala di Astrazeneca, è morta a causa di una emorragia cerebrale.
Finalmente, adesso, nessuno ha più dubbi: questo vaccino non deve essere somministrato ai minori di sessant’anni.
Ma crediamo veramente che fino al 10 giugno tutto questo non fosse prevedibile?
Mi si dirà che nella scienza non ci sono mai certezze assolute, che ci sono sempre le eccezioni, gli imprevisti, gli eventi imponderabili.
Ma perché non dirlo?
Anziché ostinarsi a parlare di vaccini sicuri, di nessi da dimostrare, di autopsie da refertare…
Si sarebbe dovuto spiegare, con linguaggio chiaro e accessibile a tutti, che per alcuni soggetti particolari, vaccinarsi è rischioso.
Quando c’è in gioco la vita delle persone, non si devono usare formule ambigue del tipo: “si raccomanda, si consiglia, si auspica”.
Sarebbe come dire che in autostrada “è raccomandato” non guidare in controsenso, o che col semaforo rosso “è consigliato” non attraversare o che le cinture di sicurezza “è auspicabile” agganciarle.
Sappiamo bene che la probabilità di morire guidando un motociclo senza casco non è altissima.
E tuttavia è obbligatorio indossarlo, per scongiurare che quel caso raro possa essere il tuo.
In questa pandemia, invece, abbiamo assistito alla ridda delle incongruenze.
A marzo le mascherine non servivano a nulla, qualche mese dopo sono divenute indispensabili.
Ci è stato detto che per avere un vaccino sarebbero occorsi da due a tre anni, dopo dieci mesi ne sono spuntati quattro.
Per i minori di cinquant’anni era previsto Astrazeneca, per tutti gli altri Pfizer e Moderna; è passata qualche settimana e si è detto che Astrazeneca non poteva essere dato ai minori di sessant’anni (specialmente se donne), a meno che non avessero ricevuto la prima dose. Oggi Astrazeneca è proibito a tutti gli under 60 e chi ha ricevuto la prima dose dovrà effettuare il richiamo con un altro vaccino.
Io spero tanto che quest’ultima decisione non sortisca altre gravi conseguenze e che non si debba assistere all’ennesimo cambio di programma.
Ormai è chiaro a tutti che la comunità scientifica si muove per tentativi, dal momento che non si era mai trovata in una situazione come quella attuale.
Di conseguenza, anche la politica risente di questa incertezza e procede a tastoni.
Da questo punto di vista nessuna meraviglia, anzi, la massima comprensione verso chi ha delle responsabilità e, nonostante tutto, se le assume coraggiosamente.
Ci si aspetterebbe, però, che la comunicazione fosse più onesta e che quando non può dare certezze, lo ammettesse con sincerità, senza reticenze né infingimenti.
Questo lascerebbe le persone libere di scegliere con la consapevolezza finora consentita.
Sulla possibilità, ad esempio, di usare vaccini diversi, sarebbe corretto specificare che i dati a disposizione sono ancora molto pochi, nettamente inferiori a quelli considerati quando si testa un nuovo farmaco.
In un noto programma televisivo, il prof. Massimo Ciccozzi, epidemiologo del Campus Bio-medico di Roma, intervistato sull’argomento, ha risposto che esistono solamente due pubblicazioni, riferite a un migliaio di casi in tutto. Pertanto, chi accetterà di ricevere il “cocktail”, deve sapere che tale combinazione ha avuto un impiego molto contenuto e una verifica assai limitata.
Lo stesso comportamento, a mio avviso, dovrà adottarsi a riguardo della terza dose, che molti danno per certa e sulla quale l’immunologa Antonella Viola ha, invece, esortato alla prudenza, chiarendo che si tratta di una scelta delicata, che non ha precedenti.
Vero è che durante una guerra l’informazione è sovente soggetta a controlli e, in qualche caso, a censura, per non svelare segreti da cui può dipendere la riuscita di un’operazione.
Ma quello contro il virus è un conflitto inedito, combattuto da un esercito formato da gente comune, come tutti noi.
Diventa, allora, imprescindibile la conoscenza, affinché ciascuno applichi la strategia migliore a salvare la vita propria e degli altri.
Dobbiamo prendere atto che la pandemia ha parecchio destabilizzato: relazioni interpersonali, rapporti di lavoro, organizzazione scolastica e universitaria, abitudini quotidiane, riti religiosi.
Ha stravolto anche i nostri principi costituzionali, non solamente per le restrizioni cui ci ha sottoposti o per quello che finanche illustri giuristi hanno giudicato uno sbilanciamento dei poteri verso l’esecutivo.
Ma soprattutto per avere trascurato - e in qualche caso sacrificato - il bene della persona in favore della collettività.
Si ha l’impressione che, alla fine, abbia fatto scuola la linea del primo ministro britannico Boris Johnson, che a marzo 2020, chiedeva agli Inglesi di rassegnarsi alla “perdita di persone care prematuramente”, per raggiungere al più presto l’immunità di gregge.
Probabilmente intendeva riproporre il famoso “lacrime e sangue”, a cui Winston Churchill aveva preparato il suo popolo, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Mi auguro che un giorno qualcuno chiederà a Johnson se nella rianimazione in cui fu ricoverato giorni dopo le sue dichiarazioni, si fosse pentito di quello che aveva detto.
In ogni caso, noi non siamo il Regno Unito, abbiamo un diversa forma di Stato, istituzioni diverse e soprattutto una storia e una cultura diverse.
La tradizione umanistica, che fino ad oggi ci ha formati, aborrisce l’impiego strumentale di esseri umani, anche se il fine fosse l’interesse generale.
Dopo il ventennio fascista, in cui si era anteposto lo Stato alla persona, i costituenti hanno concepito un testo esplicitamente antropocentrico.
Anzi, il primato dell’uomo è stato proprio il punto attorno al quale le varie sensibilità politiche e ideologiche dell’assemblea, hanno raggiunto un accordo.
In questi mesi qualcuno ha forse creduto che, trovandoci in un’emergenza, tutto fosse consentito, pur di venirne fuori.
Ricordiamo che “emergenza” deriva da “emergere”, che vuol, dire “affiorare”, “salire in superficie”, “sporgere da un liquido”.
Si tratta, allora, di una prova forte e dolorosa nella quale deve, appunto, emergere il meglio di una nazione, le sue risorse latenti e la coerenza con i principi sui quali poggia.
“Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, - scriveva Albert Einstein nel 1929 -, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni”.