La riflessione settimanale del preside dell'Istituto salesiano Ranchibile di Palermo ci porta a ragionare su un principio costituzionale che poteva/doveva cambiare il senso di una Comunità trasformando un dovere in diritto alla dignità...ma si è perso per strada.

Il primo comma del primo articolo della Costituzione italiana, di cui abbiamo da poco ricordato la genesi, recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Esso fu approvato il 22 marzo 1947, al termine di un lungo e travagliato dibattito attorno a tre proposte.
La prima, di matrice comunista, chiedeva che la Repubblica fosse fondata sui lavoratori. Ne era promotore lo stesso Palmiro Togliatti, segretario del PCI, che intendeva, in tal modo, richiamare l’attenzione dei legislatori sulla classe dei lavoratori, ponendo questi ultimi a fondamento dello Stato alla cui rinascita stavano cooperando.
Tale formulazione, considerato anche che si trattava dell’incipit, avrebbe rappresentato un netto sbilanciamento a sinistra dell’intero testo. Pertanto, già nella commissione dei settantacinque, suscitò forti e dure reazioni, soprattutto nella componente liberale e repubblicana.
Temendo, infatti, che il termine “lavoratori” avrebbe identificato solamente i proletari, essi concepirono la seguente istanza alternativa: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sui principi di libertà e lavoro”.
Ugo La Malfa pensava così di oggettivare il concetto di lavoro, dandogli un significato istituzionale.
Alla fine prevalse la mediazione del democristiano Amintore Fanfani, autore della versione definitiva, che molti abbiamo imparato a memoria fin dai primi anni di scuola.
Secondo lo statista aretino, infatti, la vera novità della Costituzione non consisteva tanto nell’affermare la sovranità popolare, quanto nel riconoscere al lavoro il fondamento della Repubblica.
Alla seduta decisiva così si espresse: “Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale.
Quindi, niente pura esaltazione della fatica [...], ma affermazione del dovere d’ogni uomo di esser quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune”.
Approvando quest’articolo, i costituenti assunsero una grande responsabilità dinanzi al popolo e alla storia, quella di non far mai mancare il lavoro in Italia, pena la destabilizzazione dello Stato.
A distanza di tanti anni, però, è evidente a tutti che l’impegno preso allora non si è sempre onorato.
Il Paese ha vissuto anni drammaticissimi di emigrazione, specialmente negli anni Sessanta del Novecento e pure all’inizio del XXI secolo.
Si è calcolato che tra il 1960 e il 1970, oltre un milione e mezzo di Italiani è dovuto trasferirsi in un Paese europeo, quasi trecentomila sono emigrati in America e altrettanti nel resto del mondo.
Secondo quanto riferito dall’AIRE, gli Italiani oggi residenti all’estero sono circa cinque milioni.
Risulta, inoltre, che le popolazioni che annoverano maggiormente discendenti italiani sono quella del Brasile, con 27.200.000 abitanti, pari al 13% del totale e dell’Argentina, che ne ha 19.700.000, corrispondenti al 47% del totale.
La situazione attuale non è rosea, il tasso di disoccupazione in Italia è mediamente intorno al 10% a livello nazionale; in Sicilia sale al 17,8%, così distribuita: 16,6% nei maschi e 19,8% nelle femmine.
Il sussistere di dati tanto alti e allarmanti dovrebbe interpellare le coscienze di ministri e parlamentari, che, evidentemente, non sempre sono riusciti a garantire il rispetto di un diritto sacrosanto e costituzionale.
Ma le parole pronunciate da Fanfani erano chiaramente rivolte a tutti, ai cittadini per primi (lavoratori e datori di lavoro), ai quali il lavoro è presentato come “dovere di contribuire al bene della comunità nazionale”, scevro di qualsivoglia privilegio, sfruttamento o “nobiltà ereditaria”.
È possibile, oggi, escludere che nessuna di queste situazioni deteriori sia presente nelle realtà lavorative del nostro Paese?
Se, ad esempio, consideriamo la dimensione economica, potremmo affermare che in Italia un ragazzo, appartenente ad una famiglia agiata, abbia pari possibilità di un aspirante lavoratore di estrazione economica inferiore?
Sono riconosciute e assicurate le medesime condizioni di sicurezza, e dunque la stessa dignità, a chiunque, a prescindere dalla nazionalità o dall’etnia?
Le indagini sulle cosiddette morti bianche attestano, ahimè, che la vita umana sia sovente asservita al profitto.
Pur di non diminuire la produttività si espongono i lavoratori a rischi mortali che, dall’inizio del 2021, hanno fatto registrare oltre trecento decessi, circa due al giorno.
In questo caso sono decisamente maggioritari gli uomini che hanno perso la vita (più di 250), rispetto alle donne.
Le principali cause sono schiacciamento, cadute dall’alto, ribaltamento con i mezzi, fulminazione e, di recente, inghiottimento in una macchina produttiva.
Un altro aspetto da focalizzare è la discriminazione sessuale, essere donna, purtroppo, è ancora penalizzante per l’assunzione in certe aziende.
Le lavoratrici non operano sempre in un contesto sereno e rispettoso, molte di loro continuano a subire ricatti, condizionamenti, minacce e violenza psico-fisica.
L’ISTAT riferisce che sono 1.404.000 le donne che nella loro vita hanno ricevuto molestie o ricatti da imprenditori, dirigenti o responsabili del personale e 1.173.000 quelle che hanno avuto “proposte indecenti”.
Di queste il 33,8% ha cambiato volontariamente lavoro e il 10,9% è stata licenziata, messa in cassa integrazione o non è stata assunta.
Anche l’orientamento sessuale può penalizzare in un colloquio di lavoro; benché non abbondino le informazioni ufficiali a riguardo, è allarmante e sconcertante apprendere che il 27% degli Italiani non ritiene necessario condannare questa forma di esclusione.
Inoltre, il nepotismo inveterato in alcuni ambienti professionali, sta diventando un tipo di nobiltà ereditaria.
Un’indagine dell’Università di Chicago, ad esempio, ha verificato che tra i ricercatori italiani ricorrono sempre gli stessi pochi cognomi: casualità, si chiedono gli esaminatori dell’Illinois, o appartenenza alla medesima famiglia?
Se davvero si vogliono cambiare i comportamenti, è necessario soprattutto un profondo rinnovamento culturale e pedagogico, che riscopra anche l’importanza del sacrificio.
Temo che le ultime generazioni siano state troppo ovattate, abituate ad avere tutto subito, convinte di potere raggiungere le mete senza prima avere attraversato le tappe.
Mi permetto, a tal proposito, di suggerire un verso di Quinto Orazio Flacco, tratto dalle Satire:
“Nihil sine magno labore vita dedit mortalibus” (La vita non ha mai dato nulla agli uomini senza una grande fatica).
Potrebbe essere un ottimo spunto per inculcare nei giovani il senso del dovere, il valore della fatica nel conseguimento dei fini, il rispetto del lavoro proprio e degli altri, il rifiuto dei favoritismi, l’ebbrezza di riuscire avendo contato solamente sulle proprie capacità, il piacere di non vendere mai a nessuno la propria dignità.