Sono travestiti come i tagliagole dell’ISIS ma non sono terroristi, non si nascondono per i loro delitti ma perché hanno scelto di fare il loro dovere di cittadini: sono i testimoni di giustizia. Ci sono dei momenti nella nostra vita in cui ci capita la ventura di sentirci presenti ad un appuntamento con la storia, e questa storia, di cui vi voglio raccontare, la Sicilia la rincorreva da almeno trent’anni, da quando Chinnici prima e poi Falcone e Borsellino e tanti altri, caduti sotto il piombo mafioso, invocavano l’importanza di una legge che riconoscesse e sostenesse i testimoni di giustizia. Tra tanti che fanno chiacchiere ed una moltitudine di politicanti in lotta per uno strapuntino, questo governo, presieduto da Rosario Crocetta, ha prodotto un fatto epocale: ha assunto i primi 13 testimoni di giustizia che in maggio diventeranno 48 (tanti sono i siciliani). Ciascuno di loro prenderà servizio presso un ufficio della Regione a seconda della qualifica e dei titoli posseduti. Ho vissuto questa occasione della firma dei primi contratti con vera commozione, ho pensato che la Sicilia così facendo stava ridando cittadinanza ai suoi figli più coraggiosi, all’onesto cittadino che si trova, suo malgrado, ad assistere ad un fatto criminale, in terra di Mafia, e decide di non tacerla. Ed in terra di Mafia quella legge e quei contratti hanno un significato che è inequivocabile, perché gridano la vittoria della normalità sull’omertà, urla al mondo degli uomini cosiddetti d’onore che l’onore vero appartiene a chi esercita i suoi doveri di cittadino. Fiumi di inutile inchiostro sull’antimafia settaria e su quella di comodo lasciano il posto all’antimafia dei fatti, rispristinano una ferita pluridecennale con la civiltà di quella grande parte di popolo siciliano che non si tira indietro e che crede nei valori di una società governata dalla legge. Mi ha fatto una grande impressione la violenza cui sono sottoposti questi cittadini, indisponibili, anzi impossibilitati, a mostrarsi se non a volto coperto, con il passamontagna dei rapinatori, con il burqua non per scelta religiosa ma imposto dalla violenza criminale. Una scena surreale, come surreale appariva il dibattito a pochi passi da Palazzo d’Orleans dove quelli che si parlano addosso, e che si fanno ingiuriare onorevoli, discettavano di province si province no, proprio mentre nel palazzo di fronte si mostrava il punto più alto della politica. La foto di chi si incappuccia per paura e quella di chi dovrebbe farlo per vergogna appaiono come il double face non di un giorno ma di un’epoca, di un tempo in cui c’è chi lavora, Renzi Crocetta Cantone e tanti e tanti sindaci piuttosto che amministratori che oppositori, ed altri invece che di mestiere fanno i demolitori. Naturalmente nessuno ha diritto di generalizzare se non vorrà passare per un fazioso e un violento e però la sfida che si sta consumando in Sicilia e nel Paese è proprio questa: tra quanto fanno il loro dovere, e perciò stesso vengono attaccati sempre e comunque, e quanti invece passano la giornata a devastare e a maledire. Bene ha fatto il Presidente Crocetta, visibilmente commosso, a chiamare per primo il Presidente della Repubblica Mattarella, perché su quel filo del telefono è corso un fatto eccezionale, e nessuno come il Presidente Mattarella può avvertirne la sensibilità, nessuno come chi sulla propria pelle ha vissuto il dolore della testimonianza offerta in solitudine. C’è un affresco ricorrente nella pittura rinascimentale, che riproduce la virtù esporsi sopra il piano dello sguardo di chi osserva mentre i disturbatori e gli ignavi sotto i tavoli le panche o nell’ombra pizzicano i polpacci alla prima. Ecco, se il fare, pur tra tanti limiti, è virtù ed allora non ci si lasci disturbare da quanti possono solo pizzicare il polpaccio; in fondo, come amava ripetere, in piena seconda guerra mondiale, il cardinale arcivescovo di Vienna: “chi nel buio accenda una luce, si aspetti le zanzare”.