Altissima tensione ieri pomeriggio nel carcere di piazza Lanza a Catania.
Diversi detenuti hanno messo a ferro e fuoco la struttura, trasformando la protesta in una rivoluzione.
Nel primo pomeriggio di ieri, nel reparto Simeto, un gruppo di circa 15 detenuti, tutta roba catanese stavolta, ha reagito con inaudita violenza, inscenando una vera e propria rivolta contro il personale di polizia penitenziaria per impedire lo svolgersi di una perquisizione straordinaria.
Il gruppo di detenuti si è scagliato contro i poliziotti con pugni e calci, utilizzando anche bastoni ricavati dai piedi dei tavolini.
Poniamoci due semplici domande:
Perché i detenuti rifiutano la perquisizione?
Come mai i detenuti riescono ad avere in cella armi improprie?
Ci arriveremo velocemente e, magari, con una sola risposta.
"Sono stati momenti di altissima tensione", spiega Francesco Pennisi, consigliere nazionale per la Sicilia del sindacato autonomo polizia penitenziaria. Per oltre un'ora, il reparto ha combattuto contro i rivoltosi, dopodiché con non poca difficoltà, la polizia penitenziaria è riuscita a ristabilire l'ordine e la disciplina.
Quattro agenti hanno dovuto far ricorso alle cure mediche presso l'Ospedale cittadino con prognosi varie: in particolare, uno di loro ha subito una frattura costale con 30 giorni di prognosi.
Il segretario generale del SAPPE, Donato Capece: “Il carcere è diventato come l’inferno dantesco e questo non è accettabile e men che meno tollerabile. La denuncia del sindacato è la urgente necessità di trovare soluzioni concrete a questa spirale di violenza. Per questo, il primo Sindacato del Corpo, il SAPPE, torna a chiedere urgenti provvedimenti per assicurare tutti gli elementi necessari a garantire la sicurezza degli uomini e delle donne della Polizia Penitenziaria”.
Certamente i poliziotti rischiano la vita, certamente i detenuti non vivono in condizioni umane dignitose e, quasi certamente, ci sentiamo di dire che nella "guerra civile" combattuta a Piazza Lanza non vi siano vincitori, ma solo vinti.
Rispondiamo ora a quelle domande di prima:
La questione delle carceri italiane era sopita dai tempi del COVID-19 e speriamo si riaccenda ora.
Evidenziando il sovraffollamento, la congestione e la mancanza di servizi essenziali.
Il ministro Carlo Nordio, ha promesso interventi, tra cui la trasformazione di caserme dismesse in prigioni e l'aumento degli organici.
Ma la priorità è trovare altri spazi da occupare per i carcerati o trovare nuove soluzioni rieducative?
Perché altri spazi significano altri costi e le carceri versano in condizioni pietose proprio perché non si naviga nell'oro.
Il sovraffollamento è il dito che nasconde la luna.
Il ministro Andrea Orlando aveva iniziato a muoversi in questa direzione, evidenziando che solo il 10% dei 56.000 detenuti rappresenta un effettivo pericolo sociale o per la sicurezza.
Molte persone sono in prigione per reati minori, con condanne inferiori a 3 anni, o si avvicinano alla conclusione della pena.
Altri sono coinvolti nel reato di immigrazione clandestina, mentre alcuni sono in attesa di giudizio, risultato di una pratica di arresto spesso considerata incivile.
Nell'equazione democratica, un fattore importante è proprio come vengono trattati i detenuti nelle carceri e non solo, il trattamento riservato alle minoranze e alle posizioni di debolezza giocano un ruolo fondamentale.
Se l'imputato e il condannato si trovano in uno squilibrio massimo tra forza e debolezza e la società tutta stigmatizza e tende ad isolare il detenuto, allora traiamo il nostro risultato.
La ribellione, la rivoluzione e la violenza vanno certamente punite, ma bisogna fare uno sforzo in più per capirle.
Dobbiamo metterci in testa che nella maggior parte dei casi, il carcere ha una funzione punitiva e non rieducativa, e dovrebbe essere così?
Come uscirà di prigione un uomo che ha vissuto in un carcere per 3 anni in condizioni igieniche al limite dell'umano, senza privacy in 9-10 mq con altri 6 uomini? Rieducato o provato? A voi la risposta.
La solitudine, i suicidi, la mancanza di uno scopo, non sono solo il risultato del confinamento fisico, ma puramente mentale.
L'essere sottoposti a decisioni, regole e condizioni imperscrutabili, che non tengono conto del singolo essere umano ma di un agglomerato di uomini, diventa quindi il punto della questione.
Per evitare questo imbuto morale, è cruciale conferire alla pena un carattere rieducativo e umano, specialmente quando il reato non comporta la morte di un'altra persona.
Questo richiede un approccio che tenga conto del valore della vita e rispetti la libertà individuale.
Per quanto banale, bisogna preferire dieci colpevoli fuori che un innocente dentro.