L'interpretazione che diamo della notizia che segue è, come sempre, del tutto identitaria, esula dagli obblighi del racconto giornalistico che ci interessa poco, per provare a mostrare cosa può esserci dietro a fatti e fenomeni che possono essere letti in modo differente, in base alla sensibilità di chi li osserva e racconta.
La premessa è d'obbligo perché la inseriamo in un contesto narrativo che non è detto sia quello gradito dai protagonisti, ma a noi interessa seguire una linea editoriale che prova ad incardinare riflessioni.
La notizia è che la più austera, e forse anche l'ultima ancora credibile ed autorevole istituzione italiana ha deciso di scendere in campo, e lo ha fatto in una delle città più periferiche e provinciali di quel che resta di un paese devastato da decenni di mal governo.
Si tratta della Banca d'Italia, che ha realizzato un'operazione semplicemente pazzesca, impensabile nella Catania della sciatteria dilagante, della bruttezza culturale imperante che ormai fa da contraltare alla meraviglia dei suoi paesaggi e del suo passato.
Facciamo un passo indietro, perché probabilmente non molti sanno che l'edificio che ospita la sede della Banca d'Italia di Catania, quello che incontriamo con noncuranza durante i nostri rapidi passaggi lungo piazza della Repubblica, è un'importante esempio di “architettura brutalista”, conosciuto e studiato in ambito scientifico internazionale. non ce ne sono molti di questo pregio nel mondo.
Lo si segnala perché si inquadra nel contesto in cui vogliamo incorniciare l'evento che stiamo raccontando.
Dal punto di vista etico, il brutalismo architettonico riflette un'approccio di onestà strutturale e materiale.
In questo contesto, il brutalismo abbraccia la trasparenza e l'integrità, rifiutando l'artificio e l'ornamentazione in favore della manifestazione sincera della funzione e della struttura.
Questa estetica etica mira a una sorta di verità architettonica, dove la forma segue la funzione in modo diretto e senza fronzoli, rappresentando un'immediata espressione di ciò che è necessario e funzionale.
Questo approccio è radicato nella convinzione che la bellezza risieda nell'autenticità e nella chiarezza piuttosto che nella sofisticazione decorativa.
Siamo tra gli anni 50/70 quando si sviluppa questa corrente di pensiero, oggi è tutto mutato e si potrebbe sostenere che l'estetica dominante è ormai quella dell'orrore, dell'immondizia che circonda le architetture del quotidiano, una contemporaneità che ha soffocato ogni tensione etica per annichilirla in un consumismo senza criterio e senza soddisfazione.
Ecco che allora l'operazione intentata dalla Banca d'Italia, che colora quell'estremo esempio di verità brutale della sua sede, diventa una provocazione ed al contempo una proposta. Culturale, sociale e politica.
Due delle facciate posteriori, quelle sulla via Sturzo, erano ancora più “brutali” del resto: pareti lisce in cemento crudo grigio.
L'idea è stata illustrata durante una presentazione che si è svolta presso la sede dell'Accademia di Belle Arti di Catania, che ha collaborato all'iniziativa.
Presentato dalla presidente dell'Accademia Lina Scalisi con il direttore Gianni Latino, a raccontarne la genesi è stato Gennaro Gigante, titolare della sede catanese di Banca d'Italia.
La proposta nasce durante il terribile periodo di lockdown causato dall'epidemia da covid19.
Periodo di grande depressione ma anche di potenti riflessioni, ricerca disperata di soluzioni non solo scientifiche da opporre a quella devastazione, a tutto quel dolore, alla paura.
La Bellezza poteva essere una risposta, aggrapparsi all'Arte per ritrovare una strada, il colore della speranza, l'impegno all'azione.
E allora da Catania, periferia dell'impero travolta dalla bruttezza, parte la proposta per i piani alti di Palazzo Koch, la sede apparentemente inarrivabile della Banca d'Italia.
I cui vertici, forse anche inaspettatamente e tra qualche silenzio riflessivo, rispondono positivamente: ci si può ragionare.
E parte la macchina delle cose che vanno fatte per bene: un comitato scientifico ed il lancio di un bando internazionale per raccogliere idee e progetti.
Facciamola breve: vince una giovane artista romana con solido curriculum, Chiara Capobianco, che propone un'opera fortemente identitaria, molto ben incentrata sulla città, con un paterno Liotru affacciato ad un balcone che guarda apprensivo alle faccende dei diversi tipi di abitanti di una Catania in movimento.
Il disegno è ultra contemporaneo ed i colori gioiosi, potenti.
L'opera occupa oltre 700 metri quadri ed è stata realizzata nel corso di un'estate rovente.
Le vernici sono bio compatibili, composte da agenti che catturano le molecole inquinanti dell'aria e le restituiscono pulite.
La sera viene magnificamente illuminata ed anche in questo si è badato alla sostenibilità, essendo alimentata da un impianto fotovoltaico che ne azzera consumi ed emissioni.
Insomma, un'operazione complessa sotto ogni punto di vista e che va letta con attenzione, non trascurandone gli aspetti anche meno appariscenti.
Tra quelli più importanti, almeno per noi, proprio la provocazione che arriva dalla più istituzionale tra le istituzioni di questo nostro paese, che sceglie l'arte ed il colore per affermare la necessità, il dovere di tutti, di rimetterci in cammino, di risanare le troppe fratture di questa nostra comunità e di farlo con la gioia del colore, con la potenza della Bellezza, che quando arriva contagia tutto.
Almeno questa è la proposta, speriamo che adesso le altre istituzioni la raccolgano e, come abbiamo tante volte scritto, comprendano che da San Berillo, dal suo risanamento, può partire il recupero di una città che è tra le più belle al mondo e non merita le offese che subisce da chi la abita e da chi la governa.
Il murale si intitola “Banco di Vita”, ed anche qui si potrebbero fare altri ragionamenti, che magari proveremo a fare un'altra volta, perché una simile iniziativa non avrebbe senso se rimanesse un esempio isolato, se non avesse seguito, se non richiamasse altre energie a scendere in campo, ad occuparsi di porzioni della nostra città, di settori sempre più disagiati dei suoi abitanti.
Un'opera che chiama a responsabilità quell'imprenditoria occupata solo a speculare senza restituzione, quel professionismo favoreggiatore del malaffare che preferisce rifugiarsi nell'etichetta di “borghesia mafiosa” per continuare a fare affari “tranquilli”, in una città dove ormai siamo ridotti a cannibali, a spolpare ossa sempre più smagrite, mentre sarebbe molto più utile a tutti seminare nuove occasioni di crescita, impegnarsi per costruire percorsi di progresso sostenibile: che magari non passi per nuovi centri commerciali o inspiegabili supermercati!
Insomma: dieci, cento, mille Banche d'Italia.
Grazie.
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