Quella di Raffaele Lombardo è una vicenda enorme, estremamente complessa.
O forse no, tutto sommato semplice, più semplice di quello che si possa o voglia immaginare.
Un semplice, semplicissimo caso di killeraggio politico, tra i più spregiudicati della storia repubblicana, un atto di “sfiducia giudiziaria” che, massacrando e costringendo alle dimissioni un leader, perché questo era Raffaele Lombardo e su questo non c'è dubbio, si inibiva forse per sempre uno dei pochissimi tentativi visionari di affrancamento della Sicilia dalle logiche colonialiste dei partiti lobbistici romani.
Il progetto di assassinio politico era probabilmente di livello altissimo, si muovevano fili delicatissimi e si agitavano ombre potentissime.
Su questo è possibile aprire un dibattito amplissimo, sul valore di quel tentativo, sui metodi, sugli obiettivi, ognuno può pensare quello che vuole e legittimamente farsene ragione, e non sarebbe male ragionarci perché il tema dell'autonomia mancata resta la grande occasione perduta di questo popolo e oggi più che mai sarebbe utile farne tema di discussione, ancor di più in una fase di grande confusione che comporta il serio rischio di derive autoritaristiche o, forse peggio ancora, di trascinare tutte le istituzioni nel sempre più veloce disfacimento.
Una vicenda, quella della destituzione violenta di Lombardo, che si intreccia col tema della “sfiducia costruttiva”, lanciato recentemente su questa testata seppur in altro contesto e con altri obiettivi, che, se presente all'epoca, avrebbe consentito il mantenimento della legislatura e, probabilmente, la sopravvivenza del progetto autonomista in chiave di “resistenza” e magari reazione all'aggressione: chissà cosa sarebbe potuto accadere.
Invece, la missione omicida riuscì e l'autonomia rimase residuo folkloristico.
Ma non è questa la sede, oggi si parla delle motivazioni appena depositate dalla Suprema Corte di Cassazione in merito al processo a Raffaele Lombardo: l'assoluzione è definitiva e le motivazioni della Cassazione pesanti.
Sintetizziamo molto brutalmente: non esiste alcuna prova del presunto concorso esterno di Raffaele Lombardo con interessi mafiosi. Punto.
Tutto il resto è da leggere, ma questo è il punto: non c'era prova, e hanno avuto 12 anni per trovare qualcosa che evidentemente non c'era.
Ora, su questa vicenda posso dire che Sudpress, questo giornale, è nato.
A quello che si mormorava, all'esistenza di un'indagine con tanto di richiesta di arresto per il presidente in carica della regione siciliana, l'imperatore Raffaele Lombardo, dedicammo il nostro numero Zero, non era ancora concluso l'iter di registrazione della testata presso il Tribunale di Catania.
Uscì come una bomba atomica il 17 settembre del 2010, e contribuì, anche qui non ci sono dubbi perché è documentale, a cambiare la storia di questa città e di gran parte della Sicilia
Eravamo un cartaceo, stampavamo 25 mila copie che da lì a breve avrebbero scassato il mercato dell'editoria catanese, sino ad allora monopolistico e rigidamente controllato.
C'era un solo quotidiano che condizionava il bello e, soprattutto, il brutto di quanto accadeva in questa città: da quel momento e alla velocità della luce tutto cambiò.
Moltiplicandosi le fonti di informazione, si diluiva il potere di controllo delle notizie. E con quello si annullavano tanti altri poteri.
Direttore responsabile di Sudpress era Antonio Condorelli e in redazione alcune di quelle che poi diventeranno firme anche importanti di altre testate, come tanti che sono passati da questa piccola ma indubbiamente battagliera “scuola”.
Non ne nominiamo nessuno per non dimenticarne qualcuno, ma sono tutti nel nostro cuore e appartengono tutti a momenti impegnativi della nostra vita, personale e professionale.
Tredici anni, tutti vissuti intensamente e pericolosamente, sono tanti.
Io ero l'editore e il direttore editoriale, come adesso, e di editoria ne capivo poco, facevo il direttore di banca, ma sono uno che studia ed ho imparato in fretta. Penso.
Stampavamo il cartaceo in una vecchia rotativa, ritiravamo le copie nella notte e le mandavamo nei punti di distribuzione, decine di bar, edicole, negozi.
Annunciavamo sul sito la sera con un “Tic Toc” che l'edizione stava per uscire e cominciava la caccia al numero: ci sono lettori che ancora ne conservano tutte le copie.
Potremmo scriverci un libro sulla storia di questo giornale, probabilmente un enciclopedia.
E forse lo faremo.
Ma oggi dobbiamo riconoscere, senza se e senza ma, che l'assoluzione definitiva di Raffaele Lombardo per assoluta mancanza di prove del suo coinvolgimento con la mafia pone una serie di interrogativi di enorme importanza.
In quel settembre del 2010 ricevemmo documentazione che, verificata come vera, decidemmo di pubblicare perché la ritenemmo di assoluta rilevanza pubblica.
Era una cartella clinica di Raffaele Lombardo che venne collegata alla richiesta di arresto che una parte della procura di Catania aveva avanzato nei confronti del presidente in carica, mentre l'allora procuratore D'Agata riteneva non ci fossero gli estremi.
Uno scontro durissimo, senza esclusione di colpi: questo giornale fu strumentalizzato?
Probabilmente si, sicuramente si, ma fa parte del gioco.
Ed è ogni volta così, bisogna stare attenti ed individuare il punto di equilibrio, quando l'interesse di chi ti dà la notizia coincide con quello generale di conoscerla. Non è facile.
È del tutto ovvio e naturale infatti che chi fornisce notizie di un certo tipo ad una testata, dichiaratamente d'inchiesta per di più, lo fa per un proprio interesse, non certo perché siamo o eravamo biondini e graziosi.
Sta a chi riceve le notizie valutarne la portata, la rilevanza pubblica e decidere se pubblicare o meno, consapevoli che le conseguenze possono sfuggire al controllo delle varie parti in causa, anzi spesso prendono strade del tutto inattese.
Fatto sta che la notizia, una volta acquisita, non è proprietà di chi la detiene, ma diventa diritto dei lettori a riceverla; trattenerla, manipolarla, minacciarla diventa altro genere di “potere” che si presta ad innumerevoli devianze.
Anche in questo inflessibili, a raccontare le “dinamiche del potere”, a svelarne i retroscena, ad indagarne i protagonisti pro tempore a qualsiasi parte appartengano, senza deferenze, accondiscendenze, collusioni o complicità.
Un motto semplice: “Non potete comprarci né intimidirci, potete solo convincerci che il progetto è buono ed utile alla nostra comunità, e vi sosterremo. In caso contrario sarà sempre guerra, E che guerra:”
Questo è il compito di un giornale d'inchiesta: “I cani da guardia del potere”.
Querele e cause civili non le contiamo neanche più, le minacce neanche le denunciamo.
Abbiamo sempre mantenuto la barra dritta e lo facemmo sin da quel caso, il primo, che tanto, tantissimo insegnò a tutti.
A me soprattutto, e da allora mi fece un maniaco della verifica delle fonti, non consentendomi mai di tralasciare il massimo rigore nelle ricostruzioni documentali ed assumendo come caratteristica di mettere a disposizione dei lettori tutti gli atti sui quali si basano le nostre inchieste, affinché possano essi stessi valutarle senza condizionamenti.
Ne subimmo parecchie per quella decisione di pubblicare quella cartella clinica: perquisizione di sette poliziotti in redazione, causa civile, procedimento penale e innanzi al Garante per Privacy.
Eravamo nessuno ma le vincemmo tutte ed oggi siamo ancora qua, a fare quello che dobbiamo, quello che vogliamo.
Non sapevamo neanche, lo capimmo dopo, che ci stavamo scontrando contro poteri immensi, imperiali.
Fu un caso nazionale, ne parlò Gad Lerner all'Infedele e Michele Santoro ad Anno Zero.
La Repubblica titolò: “Il giornale corsaro che fa paura a Lombardo”.
E la Storia, o la storia, della Sicilia cambiò per sempre e la si cambiò sulla base di presupposti falsi.
Questo è importante considerarlo adesso.
La si cambiò fermando l'ascesa di un leader che prometteva Autonomia e che con Roma trattava, per la prima ed unica volta nella storia repubblicana, da pari.
Certo, non possiamo e non ci interessa aggregarci al coro di “Santo Subito” che si registra, anche ragionevolmente, al realizzarsi di eventi come un'assoluzione dopo 12 anni di travagli giudiziari e non è una sentenza a risolvere le criticità di un periodo storico che di ombre ne conserva tante e tutte intatte.
Ma certo, un risarcimento a quel leader, alla sua famiglia, alla sua gente lo si deve e l'unico modo in cui lo si può fare è con una domanda: se non fosse stato fermato in maniera così violenta, oggi, la Sicilia sarebbe stata peggiore o migliore di quella che siamo costretti a subire?
Rispondere è impossibile, ma il dubbio è lecito.