Tradizionalmente la linea editoriale del giornale prevede che di cronaca non ci si occupa, proponiamo inchieste originali, il sabato lo dedichiamo alla riflessione e la domenica all'arte, spettacolo, cultura.
Oggi dobbiamo violarla, o forse no perché in fondo anche il caso su cui abbiamo deciso di intervenire è un caso culturale, forse lo è per eccellenza, per elezione: sette ragazzi di appena vent'anni che stuprano una coetanea ubriaca e indifesa è certamente un caso culturale, quella cultura del male che non occorre scomodare Hannah Arendt per scorgerne tutto il suo orrore proprio nella sua banalità, in quello che può accadere nella normalità di una serata in discoteca e che finisce per travolgere decine di vite.
Sono assolutamente consapevole del rischio, forse certezza, che la scelta di trattare un tema così delicato mi esponga ad essere banale, a scivolare nella retorica, ma credo che sia un rischio da correre, purché se ne parli, purché si tenti con ogni mezzo di far uscire un fatto così terribile dagli effimeri tempi della cronaca, che domani sarà dimenticata ed archiviata tra le tante brutture di questi tempi.
Non deve essere così, faremmo torto alla vittima, faremmo torto ai carnefici, che pagheranno il dovuto ma dovranno poter comprendere e recuperare, faremmo torto a noi stessi ed ai nostri figli se non cogliessimo l'occasione per riflettere su dove siamo arrivati, cosa sono capaci di compiere i nostri ragazzi e dove possiamo arrivare.
Quello che è accaduto non è una brutta vicenda di cronaca, è uno spartiacque, è il limite superato il quale può accadere di tutto, è l'argine tracimato che richiama ciascuno a fare un bilancio dia quanto si è fatto, di quanto si può e deve fare per ricondurre la nostra personale umanità degna di attraversare con dignità questi tempi difficili e pericolosi.
La gravissima violenza ha dato, come prevedibile, fiato alle grancasse dei soliti “statisti”, subito protagonisti degli immancabili colpi di genio: arrivata puntuale come una Sweda la proposta di “castrazione chimica”, domani qualcuno magari alzerà il vessillo della pena di morte e via discorrendo.
Come se possa esserci un deterrente penale alla perdita progressiva e drammatica di ogni valore umano.
Purtroppo la questione è molto più complessa, e saperla in mani così “parvenu”, di gente che l'ultimo libro maneggiato è il sussidiario, forse, rende tutto più difficile e richiede uno sforzo esagerato per provare ad uscirne senza farsi troppi danni.
Il titolo scelto per introdurre questa riflessione è angoscioso, doloroso.
Sente il bisogno di chiedere non ad altri, non alle istituzioni, ma a se stessi se abbiamo fatto il possibile, il giusto, il dovuto per accompagnare la nostra personalissima prossima generazione, i nostri figli, verso un mondo umano, in cui allo straordinario progresso tecnologico e scientifico corrisponda un altrettanto valido progresso morale e culturale, un mondo basato su più diritti, su più chance, sull'allargamento costante delle condizioni di benessere e serenità.
Sconcerta, ma forse neanche tanto, che i sette ragazzi autori dell'orribile violenza appartengano a famiglie “normali”, della media e buona borghesia palermitana, nessun disagio economico, nessun degrado socilae.
Sconcerta ancor di più che tra sette ragazzi non uno abbia avuto un attimo di lucidità, di coscienza, che si sia fermato per dire “ma che stiamo facendo?”.
Ancor di più che l'indomani stessero “studiando” varie modalità per intimidire la vittima che li aveva denunciati.
Uno di loro viene intercettato mentre dice alla propria madre: “La vado a cercare e le do una testata sul naso”.
Non sappiamo la risposta della madre, se c'è stata.
E allora lo sgomento è totale: "posso sentirmi apposto con la mia coscienza per come ho cercato di educare mio figlio?" “Sono riuscito a trasferire quei valori di rispetto per l'altro, chiunque esso sia?” “Sono riuscito ad imporre il ripudio per ogni violenza, per ogni sopraffazione?”
Ho fatto il possibile, non ho mai picchiato mio figlio, neanche un ceffone, forse perché non ho mai ricevuti da mio padre, ho provato il più possibile di lasciarlo libero di scegliere, accompagnandolo con discrezione in scelte via via più impegnative, a partire da quella di andare lontano ad imparare la vita, la diversità delle culture, dei modi di essere.
Posso sentirmi apposto? Ovviamente no. Ed ovviamente lungi da chi scrive la sola idea di poter proporre soluzioni, ma dubbi si, tantissimi.
Bisogna però recuperare la militanza dell'essere genitori, dell'essere educatori, dell'essere insegnanti.
Bisogna alzare la voce adesso e contestare con forza che tutti, TUTTI, gli ultimi governi della nazione, almeno nell'ultimo trentennio, hanno scientemente sottratto risorse al mondo dell'educazione, allo sport, alla cultura.
Hanno trasformato le periferie in lager, le scuole in parcheggi, le università in ospizi ed i teatri in aziende.
Non va bene, il prezzo sociale è altissimo e le conseguenze pericolosissime.
Oggi siamo tutti confusi, abbiamo perso la bussola, affogati dalla benzina a due euro al litro, dalle bollette impazzite, da salari e stipendi da fame, da incendi che ogni anno distruggono quote crescenti del nostro habitat, da gente assurda chiamata a gestire emergenze che sono riusciti a trasformare in ordinarie.
Alziamo la voce nei confronti di chi gestisce il denaro pubblico e si pretenda che si occupino dei nostri giovani, delle loro esigenze, della necessità di investire non per creare “forza lavoro” più o meno specializzata, ma cittadini del mondo consapevoli e responsabili, capaci di dare il loro contributo per costruire serenità e benessere.
E invece, i nostri ragazzi non esistono proprio nell'agenda politica, dove si parla di tutto tranne che di coloro che dovranno vivere in un paese che stiamo distruggendo pezzo per pezzo.
Militanza, bisogna recuperare una militanza personale, bisogna ricominciare a sentire la responsabilità di capire che la salvezza di questo mondo non dipende da altri che da noi stessi.
Ricominciamo, se non lo facciamo, a salutare con un bacio i nostri figli quando usciamo e quando rientriamo, chiediamogli come stanno e dove vanno quando escono.
Chiediamogli come stanno.
Anche questa è militanza, resistenza. Non dare niente per scontato perché niente lo è.
Ricominciamo a curare il nostro pianerottolo, senza temere che ci rubino la piantina che vi piantiamo, teniamolo pulito, abbelliamolo per come possiamo, mettiamo uno zerbino gioioso, un quadro iconico, un benvenuto: alla fine il mondo non è altro che la somma di tutti i pianerottoli, cominciamo dal nostro.
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