È vero, le alluvioni ci sono sempre state e l’Italia, in particolare, è anche famosa per alcune di esse, verificatesi nel passato, che hanno attirato gli sguardi di tutto il mondo.
Mi riferisco a quella di Firenze del 1966, che causò trentacinque vittime e danneggiò una quota considerevole dell’inestimabile patrimonio artistico, custodito nella città.
Allora diedero prova di grande solidarietà e abnegazione i cosiddetti “angeli del fango”, centinaia di giovani che da tutta Italia – e non solo – accorsero nel capoluogo toscano a recuperare manoscritti, tele, affreschi e statue, prima che l’acqua e la melma potessero rovinarli per sempre.
E tuttavia ci sono delle importanti differenze con la situazione di oggi, riguardanti innanzitutto la frequenza con cui questi fenomeni avvengono.
Essi non sono più straordinari o sporadici, ma ricorrono con un ritmo sempre più incalzante.
Potenzialmente ogni temporale o nubifragio è ormai in grado di provocare devastazione e morti nel luogo in cui si abbatte.
L’altra novità è inerente alla stagione, non più l’autunno, periodo tradizionalmente piovoso, ma la primavera.
Una volta scene come quelle trasmesse dai telegiornali nei giorni scorsi, sarebbero state impensabili a maggio.
Adesso, invece, non c’è più distinzione e il rischio rimane alto in qualunque momento dell’anno ci si trovi.
Naturalmente potremmo anche noi interrogarci su chi sia responsabile delle quattordici vittime dell’Emilia Romagna e subito dopo stigmatizzare l’abusivismo, la scriteriata cementificazione delle campagne, la mancanza di una politica ambientale seria e lungimirante.
Ma la considerazione che adesso si impone su tutte credo debba vertere sulla risposta terribile, che la natura dà a quanti si illudono ancora di poterla soggiogare.
Un grande filosofo inglese, Francesco Bacone, diceva che “natura non nisi parendo vincitur”: la natura può essere vinta soltanto ubbidendole, ovvero conoscendo e osservando le sue leggi.
Purtroppo si assiste da tempo ad una sistematica violazione di esse, anzi alla pretesa di volerle sostituire con regole dettate da noi.
E a questo punto mi viene in mente una riflessione di Blaise Pascal, quando dice che se l’uomo cessa di pensare rimane schiacciato dall’universo.
Negli ultimi decenni abbiamo agito tanto, ma pensato poco, anzi abbiamo creduto di non dovere più pensare, di poterci congedare per sempre da quest’attività per la quale, dice ancora l’autore dei Pensieri, l’uomo è il più grande di tutti gli esseri.
Anni fa Bill Gates, intervistato da Fabio Fazio, che gli chiedeva se il mondo avesse più bisogno di filosofi o di medici, rispose senza esitazione “di medici, a cosa possono servire oggi i filosofi?”.
Eppure la cronaca di questi ultimi mesi ci dice che non è proprio così.
Senza nulla togliere a chi studia come sconfiggere le malattie, agli ingegneri che riporteranno la normalità nelle strade flagellate dalla pioggia e dalle frane o agli economisti, che troveranno il modo di accrescere ulteriormente il nostro benessere, se vogliamo recuperare l’armonia con la natura e lasciare alle prossime generazioni un mondo migliore di questo, dobbiamo convincerci che “l’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale”.