"Noi non abbiamo paura di proporre testi impegnativi, perché stimiamo i nostri lettori;
voi non abbiate paura di leggerli fino in fondo.
E se avete domande, ponetele e troveremo qualcuno che possa rispondere per poi avere altre domande."
Sudpress
Catania vive da tempo in una condizione di crisi profonda, crisi che può essere opportunità di una discontinuità da non sbandierare ma da realizzare superando la cieca fiducia nella capacità di autoregolamentazione del mercato e degli individui, fenomeno che qui da noi dove non rispettare le regole è la regola emerge in misura ancora più evidente.
Che fare?
Rimettere al centro la città, valorizzare le tante risorse disponibili (tra cui quella sociale, che nel sud è patrimonio autentico) e le potenzialità della città in una prospettiva di aggiornamento e cambiamento.
Improbabile immaginare e ventilare ipotesi di rivoluzione repentina, occorre piuttosto innescare un processo che provochi un’onda lunga di cambiamento ripartendo dalle basi della città in termini di civitas (il corpo sociale, la comunità), urbs (la città fisica) e polis (la politica).
Il cambiamento deve saldare le tre componenti urbane appena citate il cui perno è la comunità, di cui la classe politica è espressione.
La comunità degli abitanti configura lo spazio fisico non solo come forma e funzione ma specialmente in termini di uso, azione che conferisce al testo architettonico e urbano senso e contenuto.
La necessità di un cambiamento è opinione diffusa, il problema è che si scompone in singoli aspetti divisi senza cercare il massimo comun divisore che aiuterebbe a definire un quadro unitario.
Questo provoca nel cittadino disincanto e sfiducia nella possibilità di affrontare i tanti, troppi problemi ammassati e ingarbugliati, tuttavia, come ben sa chi va a pesca quando la lenza si annoda per sciogliere la matassa occorre allascare, allentare, innescare un cambiamento di stato, una regola pratica che trova riscontro nella scienza che insegna come i sistemi complessi si auto-organizzano, importante è che ci sia movimento e non quella immobilità che da troppi anni caratterizza Catania.
Da dove partire dunque? Daccapo, nutrendo il senso di appartenenza e costruendo un sentimento comune che sfoci in impegno condiviso, collettivo e individuale, a partire da ciascuno di noi che deve rinunciare a uno quota di desideri e aspettative personali per costruire il bene comune: “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” diceva il Mahatma Gandhi.
Civitas
“Se si vuole costruire una nave, non è necessario chiamare le persone a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non è necessario distribuire i compiti, non è necessario organizzare il lavoro.
Invece, prima bisogna risvegliare nell'uomo il desiderio di un mare lontano e sconfinato.
Non appena questa sete si risveglia in loro, si mettono subito al lavoro per costruire la nave.” (in Citadelle libro postumo di Antoine de Saint-Exupéry).
Riflessione interessante e raffinata, che può essere estesa alla costruzione della città.
Quello che bisogna coltivare è il desiderio di comunità, la voglia di una città a misura d’uomo, sentimenti che dovrebbero stare distanti dall’astrazione della speranza e vicini alla concretezza dei fatti.
La disaffezione dalla politica, la diffidenza verso la classe dirigente, la contrapposizione con le amministrazioni pubbliche considerate controparte, provocano non solo disincanto ma avversione.
Se si vuole che gli abitanti di una città s’impegnino a costruirla occorre innanzitutto accorciare le distanze tra politica e cittadinanza per sconfiggere la paradossale percezione che cittadini e amministrazioni pubbliche siano entità conflittuali contrapposte.
Il baratro che separa la politica dei cittadini va superato con ponti e traghetti, promuovendo la partecipazione e sostenendo le comunità di vicinato che del corpo sociale sono gli organi vitali.
Non bisogna promettere rose e fiori né chiedere lacrime e sangue, si deve piuttosto coinvolgere la cittadinanza nella definizione di un'idea di città e nell'avviamento del processo di realizzazione di quell'idea con programmi a breve, medio e lungo termine, da aggiornare di continuo verificandoli ma senza negarli per partito preso a ogni cambio di amministrazione come avviene oggi con forze politiche che scardinano per partito preso tutto ciò che è stato fatto da chi li ha preceduti, più per distinguersi (tattica) che per progettualità (strategia).
Oggi è certamente utile e forse anche indispensabile superare le contrapposizioni pregiudiziali e definire un quadro condiviso che scongiuri il vizio di ribaltamenti, capitomboli, capriole giravolte, generalmente dettati da calcoli elettorali personalistici e di piccolo cabotaggio.
Questo non implica la rinuncia alla propria identità e alla diversità dei percorsi ma di dare priorità al rilancio della cultura del progetto.
La pianificazione e la programmazione sono fasi determinanti per definire il quadro, l’orientamento, la traiettoria della progettAzione, che è esercizio visionario di pre-visione di concrete procedure per realizzare cambia-menti.
Non si può procedere per decenni in un quadro indefinito in cui si susseguono eccezioni e misure parziali che vanificano l’azione.
Il fatto che la vita e la città si muovano di continuo e a una velocità tale da rendere difficile stare al passo, impone flessibilità e agilità ma non la rinuncia alla cultura del progetto, inteso come gestione di processi complessi, in divenire.
PartecipAzione è parola abusata come lo è sostenibilità, l'eccessivo utilizzo ha come conseguenza la vanificazione dell'efficacia e la privazione del significato di parole svuotate di senso.
L’azione partecipata non va annunciata ma enunciata e attuata.
Non è semplice, è richiesto lo sforzo di ciascuno degli attori, di tutti noi che abbiamo smarrito la capacità di dialogare, di ascoltare, di dare un contributo aggiungendo qualcosa a quanto ha detto o fatto un altro, troppo spesso parlando ciascuno riparte daccapo, da sé stesso.
In qualunque occasione di confronto vediamo emergere innanzitutto l’ego, ciascun soggetto (individuale o collettivo che sia), parte dal riepilogo dei motivi di orgoglio per quanto ha fatto o detto, richiama la delusione per meriti non riconosciuti e la frustrazione perché se i risultati non sono quelli auspicati è stato per gli impedimenti opposti, mai per propri errori o responsabilità e tantomeno per l’incapacità di spiegarsi (sono sempre gli altri che non capiscono) o di elaborare strategie in cui l’interlocutore possa riconoscersi nutrendo il senso di appartenenza.
La partecipAzione è processo complesso che va gestito e affinato con l’esperienza, mettendola in atto, riconoscendo gli errori e correggendo man mano il tiro.
Le decisioni che incidono sulla qualità della vita nelle città e degli abitanti non possono essere demandata alla discrezionalità della politica, che ha il dovere di coinvolgere una cittadinanza la quale ha il diritto di prender parte ai processi decisionali.
Il tema è anche quello del decentramento amministrativo, che riguarda tutte le questioni e gli ambiti su cui si esercita l’azione pubblica. Il nodo è individuare modalità e percorsi leggibili e praticabili che consentano di confutare fattualmente la logica perversa del decisionismo come unica strada per risolvere i conflitti e i problemi.
Al contrario, occorre dimostrare che un’ampia e strutturata partecipazione riduce le conflittualità e produce un consenso duraturo sulle grandi e decisive scelte della comunità.
Solo così potremmo finalmente avviare forme di governo efficace e sostenibile.
Alcune pratiche (come le consulte) sono già state sperimentate dando anche buoni frutti, ma sono state spesso accantonate o sterilizzate riducendole a simulacri, private della forza che può venire solo dall’attribuzione di un proprio potere deliberativo in virtù di strumenti concreti per l’orientamento (prima) e il controllo (poi) dell’operato di politici e amministratori.
Il tema della partecipazione è determinante nell’attuale condizione di crisi della rappresentanza e di disincanto sull’efficacia delle attuali forme di delega.
Determinante per aggregare consenso attorno a una tale prospettiva di riforma è vincere la diffidenza legata al luogo comune che partecipazione significhi in sostanza vincolo e impedimento al fare.
Per questo occorre organizzare e declinare il decentramento per favorire forme di consultazione e partecipazione come pratiche regolari (nella doppia accezione di “consueta” e di “regolata”, basata su regole) che comportino diritti e doveri, con obbligo di rispetto delle decisioni assunte seguendo procedure definite.
Ciò comporta la riforma degli istituti di democrazia, potenziando quelli che sono stati oggi depotenziati (come i referendum e le consulte) che devono avere più forza e potere vincolante.
Troppo spesso il potere locale dialoga solo con associazioni di categoria e sindacato, relegando il cittadino al ruolo di spettatore senza alcuna funzione attiva.
Urbs
La città, l’architettura, il paesaggio sono (come la politica) lo specchio delle comunità che abitano un dato luogo dando vita ad habitat. L’architettura è una pratica che deve conciliare istanze tecnico-scientifiche e poetico-umanistiche, queste ultime non si esauriscono sul fronte estetico del “bello” ma hanno anche un aspetto letterario di carattere narrativo: un testo architettonico racconta a chi lo sa leggere (peccato che i lettori siano una sparuta minoranza rispetto agli analfabeti).
Caratteristica del testo urbano catanese è la relazione dialettica tra città ideale (rappresentata dai cantuneri, le lesene d’angolo che sono il caposaldo della ricostruzione post terremoto del 1693) e città reale (il tessuto talvolta anche minuto che si sviluppa all’interno degli isolati definiti dai cantuneri) ed è questo che dobbiamo recuperare, la capacità di allungare lo sguardo avanti insieme alla concretezza del fare nel tempo presente, quel tempo interstiziale e istantaneo che ospita il passato in luce e il futuro in nuce.
Molto altro c’è da imparare dalla capacità di rinnovamento e modernizzazione dimostrata nella ricostruzione di rinascita della città nuova settecentesca.
L’architettura principale monumentale è caratterizzata da edifici di buona fattura realizzati a regola d’arte e con buoni materiali, del tipo a corte, utile per salvare vite da possibili crolli in caso di terremoto.
All’esterno è la sequenza di piazze a offrirsi come luogo sicuro di raccolta delle persone.
È quella esperienza l’origine della sapienza costruttiva che aveva fatto dell’attività edile, una delle principali fonti dell’economia catanese.
La costruzione dell’architettura e della città teneva insieme modalità di produzione artigianale con quella di stampo industriale, le singole componenti (cornici, decorazioni, mensole dei balconi e cagnoli d’a speranza) venivano infatti realizzate in serie, poi il tecnico accompagnava il committente a scegliere quali prendere per il suo edificio in relazione all’impaginato di facciata.
È così che si afferma a una lingua ricca di eccezioni grammaticali e sintattiche, una sorta di dialetto catanese dell’architettura che ha le sue radici nell’opera dei maestri come Vaccarini o Stefano Ittar che r-innovano l’architettura della città.
Quel patrimonio di sapere tecnico è andato irragionevolmente disperso dopo l’epoca dei cavalieri del lavoro.
Contiguità mafiosa e corruzione (condizioni ancora oggi presenti) non ne giustificano lo smantellamento.
Il sequestro di beni e attività a mafiosi e simili dovrebbe imporre il dovere di assicurare continuità all’attività lavorativa delle ditte ai cui vertici dovrebbero essere insediati manager capaci di gestirle.
Ma torniamo alla città fisica.
Il recupero del sapere tecnico, implementato da una capacità progettuale che non sia solo servile e funzionale agli interessi della speculazione fine a sé stessa ma che faccia da volano a investimenti strutturali potrebbe diventare il motore della rigenerazione urbana, da imperniarsi sulla riqualificazione delle grandi aree centrali dismesse come le caserme, gli ospedali, le linee ferroviarie ma anche promuovendo degli attenti interventi di demolizione e ricostruzione con buone pratiche di sinergia pubblico/privato.
I nostri piani regolatori dovrebbero smettere di prevedere il consumo di suolo, e consentire nuove costruzioni solo se bilanciate dalla restituzione di aree edificate alla natura.
Catania? Ha grandi potenzialità.
Partiamo dall’esistente dove si possono cogliere interessanti spunti di modernità, attualità, contemporaneità.
La città va ormai considerata alla scala metropolitana e policentrica, una città di città, sia nella corona dei paesi etnei che all’interno della città storica con i suoi quartieri e nelle sue aree di espansione a cui non si riconosce dignità relegandole alla condizione di periferia emarginata, vivaio di disagio e conflittualità sociale.
È città con una spiccata vocazione pedonale, buona parte del centro si può tranquillamente girare a piedi, inoltre la presenza in centro storico di quartieri storici e popolari come San Cristoforo sono una occasione per riconoscere l’importanza della dimensione di vicinato che grandi capitali europee come Parigi stanno adottando sperimentando la città dei 15 minuti, organizzata cioè in ambiti in cui nel raggio di circa un chilometro e mezzo si trovino i servizi essenziali di vicinato e urbani con le fermate della mobilità urbana e metropolitana, presidi sanitari minimi.
A Catania andrebbe organizzato un circuito consolidato di aree pedonali a formare un sistema esteso e diffuso.
I progressi nella tecnica della bicicletta hanno consentito il diffondersi anche a Catania del suo utilizzo per la mobilità urbana e perfino metropolitana nonostante l’orografia, tuttavia, non si possono disegnare i simboli delle biciclette e considerare le corsie degli autobus piste ciclabili, occorre pianificare una rete e procedere pian piano a dargli forma e vita.
La declinazione di una efficiente rete di mobilità consentirebbe di coniugare la dimensione locale di vicinato con quella globale della città metropolitana.
Tuttavia, è difficile agire nell’attuale realtà metropolitana non elettiva che si presenta più come una conferenza di servizi composta da sindaci e consiglieri dei diversi comuni, portatori d‘interessi locali che come centro di amministrazione di aree vaste variamente urbanizzate.
Bisogna riformare l’architettura amministrativa che riporti quella entità a una dimensione politica.
Si potrebbe addirittura riconfigurare l’intera architettura istituzionale e amministrativa della Sicilia in macroaree.
Il rilancio della città non può prescindere dall’impegno a Librino che non è nuova città ma solo un satellite.
Librino è un arto importante che va integrato all’organismo urbano anche con l’insediamento periferico di attività “centrali”, bisogna andare a Librino e smetterla di farne città incompiuta, utile solo ad allontanare dal centro una quota rilevante della comunità catanese che di fatto non riconosciamo come tale.
Il pregio e il difetto di Librino è quello delle città di fondazione grandi e piccole nate nel dopoguerra, figlie del razionalismo e della funzionalità. La sfida è conciliare la città plurale superando la logica della segregazione funzionale, sogno schematico che si fa incubo con scomposizione del tessuto urbano che nel centro di Catania mantiene la sua vitalità proprio grazie alla compresenza di funzioni diverse nei quartieri popolari.
Librino è una parte di città importante per superficie e numero di abitanti che va riqualificata e rigenerata insediando servizi e attività economiche ma anche con un sistema del verde che può ricucire la trama urbana e l'ordito sociale con la realizzazione di un tessuto connettivo verde capace di dare continuità saldando quest’area alla città.
Anche qui si deve agire insieme alla popolazione sostenendo i tanti volontari del terzo settore che già lo fanno con risultati ammirevoli e tangibili, da Antonio Presti alle tante associazioni musicali, sportive ecc. impegnate sul campo.
Si potrebbe affidare per esempio agli abitanti la cura di parti di città offrendo di contro sconti sui costi di servizi il trasporto pubblico, o buoni libro per la scuola, o riduzione dei costi per igiene ambientale o tagliandi di So-stare, o biglietti per il cinema, il teatro o lo stadio ecc.
L’utilizzo dello spazio pubblico per uso civico è una forma di presidio che incrementa la sicurezza quindi va incoraggiato.
Una grande occasione in questo senso è il un grande parco urbano di Monte Po che dall’ospedale Garibaldi-Nesima potrebbe arrivare fino alla foce dell’Acquicella e alla playa, e da qui all'oasi del Simeto, riserva naturale incompiuta.
In questa zona si potrebbero realizzare aree umide per fitodepurazione per la pulizia delle acque prima che queste raggiungano il mare in una città che lo inquina per l’assenza di fognature.
Tanti altri sono i temi rilevanti di valorizzazione del territorio tutto, dalla montagna al mare, fino al superamento di una città di mare che ha perso i suoi contatti con l’acqua, ma questi argomenti sono ormai un luogo comune.
Polis
Infine, ma non ultimo la politica, che deve riconoscere, interpretare e risolvere i bisogni delle comunità ma anche lavorare in prospettiva per un’idea di città.
Oggi non si riesce a gestire l’ordinaria amministrazione, figuriamoci sviluppare una visione per il domani da costruire qui ed ora.
Il verbo amministrare (come la parola ministro) viene da minestra ed è nozione legata al pater familias che distribuiva la minestra nei piatti ripartendo le dosi tra i componenti della famiglia tra chi lavorava, le donne che lavoravano in casa e crescevano i figli, gli anziani… e ripartiva il cibo con equità tra i singoli componenti per sostenere il ben-essere della famiglia nel suo insieme.
Tutti noi abbiamo una quota di responsabilità collettiva nella scelta della classe dirigente, dei politici e degli amministratori pubblici, nessuno è esente perché non si elude il “concorso di colpa” facendo notare di aver votato per altri o che personalmente ci si è sempre comportati in maniera diversa.
La componente cittadina maggioritaria dà forma ed espressione a un soggetto plurale di cui siamo tutti comunque parte, inutile scaricare responsabilità o colpe sui capi espiatori.
Per ottenere risultati migliorativi tangibili occorre cambiare l’orientamento partendo dal basso.
Urge un’assunzione di responsabilità individuale a vantaggio del bene comune, rimboccandosi le maniche e mettendosi a disposizione della comunità per offrire una prestazione di servizio legata alle proprie competenze, capacità, abilità, per avviare una rivoluzione culturale che ci consenta di affidare e restituire la città a cittadini che devono sentirsi protagonisti dei processi nel loro farsi, grazie a dinamiche di partecipazione che aiutino a sconfiggere la disaffezione elettorale e politica.
La componente civica costituisce già della politica una spinta importante, tuttavia, quella reale delle persone effettivamente impegnate e attive continua ad essere marginale e minoritaria rispetto a quella civica solo nominalmente promossa dalla politica per avvantaggiarsi delle regole elettorali.
Può sembrare una contraddizione in termini la contrapposizione tra dimensione civica e politica ma non lo è se si considera che la politica è diventato un fenomeno autoreferenziale con la fine dei partiti tradizionali e la perdita della base che era, quella sì, civica.
Ecco così il fiorire delle liste civiche dei sindaci generalmente legate a partiti o gruppi precisamente organizzati, disconnessi dalla cittadinanza e dalla città reale.
Non è stato migliore il destino dei soggetti politici nati come espressione movimentista, diventati ben presto sedentari nelle stanze del potere, inadeguati per mancanza di professionalità politica che è la capacità di governare le dinamiche e non il fare della politica un mestiere, abilità andata smarrita con l’abbattimento della “prima repubblica” e la promozione sul campo di soggetti impreparati a destra e a manca, non solo ieri ma ancora oggi. La legittima aspirazione al rinnovamento e al ringiovanimento della politica ha allargato, anziché accorciarle, le distanze tra politica e società.
Non è indispensabile candidarsi a elezioni, potrebbe bastare e forse sarebbe addirittura più utile dar vita ad aggregazioni trasversali per dare un contributo nell’elaborazione di idee e azioni, incalzando e facendo pressioni sulla politica.
Per farlo è necessario superare le consuete contrapposizioni pregiudiziali per fini elettorali.
Pur mantenendo identità e diversità di vedute, si potrebbe indicare un orientamento condiviso rilanciando una cultura politica fatta di opinioni varie che sono occasione di arricchimento e non di impoverimento del patrimonio politico.
Ciascuno di noi provveda oggi a fare quanto può lavorando sulla prossimità più che portare l’accento sulla distanza e sulle differenze. Bisogna rilanciare la cultura politica che è fatta di posizioni e idee diverse che si deve saper ricomporre in un quadro unitario di sintesi.
Non sappiamo gestire il confronto e le crisi, al minimo segnale partiamo all’attacco lancia in resta nella presunzione che la miglior difesa sia l’attacco.
Questa dinamica si riverbera anche sul confronto divenuto sinonimo di scontro e non occasione d’in-contro.
Anche in politica si fa leva sulle differenze, trascurando le possibili convergenze, sintomo questo di una profonda crisi d’identità (individuale e collettiva) che nello smarrimento di sé vede accentuarsi i fattori di diversità per distinguersi dall’altro, considerato eccezione rispetto a noi regola.
Gli elaborati grafici che seguonp sono il frutto di una esercitazione progettuale con laureandi e giovani architetti tenuta nel 2011 nel quadro del workshop internazionale INTERSECTION organizzato dall’Ordine degli Architetti di Catania.
Insieme a mio padre Giacomo partecipammo come docenti di uno dei gruppi di lavoro con tema Acquicella e immaginammo questa che seppure non sia una proposta progettuale sviluppata in dettaglio contiene comunque indicazioni precise utili: dal parco alle residenze sul bordo di San Cristoforo a confermare la vocazione residenziale ma anche la polifunzionalità di quello che era il tessuto della città storica, dal molo con passeggiata in quota che dalla città porta al mare e sotto ospita attività per imbarcazioni da diporto all’interramento della SS 114 con utilizzo delle aree retrostanti per le attività portuali commerciali e i container.
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