
Sul finire degli anni Settanta, Francesco De Gregori, in una delle sue canzoni più note e suggestive, cantava che “la guerra è bella anche se fa male”.
È un verso che si addice alla situazione che viviamo dal 24 febbraio del 2022, data in cui ha avuto inizio quella che è stata definita dagli aggressori “un’operazione speciale” della Russia nei confronti dell’Ucraina e che, in realtà, si è ben presto trasformata nella guerra più cruenta, combattuta in Europa dal 1945.
Mentre il mondo ancora si interrogava su come ripartire da una pandemia, che aveva causato sei milioni di vittime e danni economici devastanti, a qualche migliaio di chilometri da casa nostra, iniziava una carneficina, che avrebbe lasciato sul campo oltre trecentomila morti, quasi il doppio di quelli uccisi in Italia dal coronavirus.
Come succede in ogni conflitto, le cifre comunicate dagli Stati in combattimento non sono del tutto attendibili, pertanto bisognerà aspettare la fine delle ostilità per avere un bilancio credibile.
Poiché si è veramente detto e scritto tanto sull’argomento, anche da parte nostra, si fatica, adesso, ad aggiungere altre parole, senza scadere nella retorica.
Dispiace, però, constatare come in dodici mesi, tutte le parti in causa, nessuna esclusa, siano riuscite solamente a produrre uccisioni e distruzione.
È chiaro, la guerra è tutto questo e quella in atto è molto difficile da superare, dal momento che uno dei belligeranti è una potenza nucleare, che ha più volte ventilato la minaccia di ricorrere ad armi non convenzionali.
Ma è possibile che un anno non sia bastato a giungere, se non proprio ad una pace, quanto meno ad un cessate il fuoco? Neanche a Natale!
È spiegabile un tale insuccesso, nonostante le risorse di cui la diplomazia internazionale dispone?
Ci sia consentito dubitarne seriamente e pensare, invece, che per molti, troppi, “la guerra è bella anche se fa male”.
Probabilmente apparirebbe bella anche a noi, o quanto meno legittima e necessaria, se, improvvisamente, ci ritrovassimo un invasore in casa.
Ma le perplessità che questa riflessione vuole suscitare riguardano principalmente la comunità internazionale e, in particolare, le Nazioni Unite, che continuano a essere latitanti.
L’unica organizzazione operativa è stata finora la NATO, dalla quale non ci si poteva aspettare altro che l’invio di armi, sempre più micidiali, visto che si tratta soprattutto di un’alleanza militare.
Essa è stata creata in vista di una possibile guerra tra i due blocchi ideologicamente contrapposti, usciti dalla Seconda Guerra Mondiale.
Dunque la logica che la ispira è bellica, prima che politica, di combattimento più che di dialogo.
Ma l’ONU no.
Nel suo atto costitutivo si legge che il suo scopo è “salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità”.
Ce lo siamo chiesti tempo fa e lo ribadiamo oggi: dov’è il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres?
Come fa a restare ancora al suo posto e a non prendere atto del fallimento planetario suo e dell’istituzione che rappresenta?
È impensabile che i due uomini militarmente più potenti della terra non si siano incontrati dall’inizio dell’invasione, ancorché appartengano allo stesso organismo internazionale.
E siccome non sarebbe generoso addossare tutte le responsabilità ad un solo soggetto, ci permettiamo di chiedere ai nostri politici, anche in questo caso a tutti, quale progetto o iniziativa di pace abbiano concepito in questi mesi.
Non si è sentito nessuno formulare una proposta seria e praticabile.
Non si riesce ad andare oltre quello che è ovvio e lapalissiano, che ci sono un aggressore e un aggredito, che se non viene fermato, l’aggressore arriva fino a casa nostra (addirittura fino a Lisbona, ha ipotizzato un commentatore illuminato!) e che solamente l’invio di armi a Kiev potrà permettere una trattativa paritetica.
E nel frattempo? Si bombarda, si saccheggia, si stupra e soprattutto si muore: di fame, di freddo, o sotto i proiettili sparati dal nemico.
Storicamente all’Italia è sempre stato riconosciuto un ruolo importante nei negoziati.
Noi abbiamo una tradizione antica e fruttuosa di mediazioni, riconciliazioni, riappacificazioni, equilibrismi politici, sin dai tempi di Lorenzo il Magnifico, soprannominato, per questo, l’ago della bilancia.
In Medio Oriente, ad esempio, la diplomazia italiana ha lavorato alacremente per anni, riscuotendo il consenso e il rispetto di ogni contendente.
Abbiamo tutti apprezzato il coraggio con cui Giorgia Meloni si è recata in Ucraina giorni fa, ma perché non provare, adesso, ad andare a Mosca?
Naturalmente a stringere mani e dispensare sorrisi, ma anche a sottoporre all’interlocutore una bozza da cui partire, per l’avvio di un dialogo, che si spera possa diventare fecondo.
Da ieri si celebrano in molti Paesi, compreso il nostro, manifestazioni contro la guerra, utili a scuoterci dall’assuefazione, che potrebbe prenderci, se non ci ha già preso, nei prossimi mesi.
Ma se la politica non cambia mentalità e non persegue propositi di pace e non di vittoria, a quelle di quest’anno si aggiungeranno altre celebrazioni, per chissà quanto tempo ancora e la conta dei morti continuerà a salire. Inesorabilmente.