
Le immagini dei cadaveri sparsi per le strade di Bucha, o ammassati dentro una grande fossa comune, nei giorni scorsi hanno fatto il giro del mondo.
Entrando nelle case, hanno turbato quanti, attorno a un tavolo o comodamente seduti davanti al televisore, le hanno viste con raccapriccio e sgomento.
Si teme che in altre città, ancora controllate dai Russi, o comunque interdette ai giornalisti inviati in Ucraina, possano essersi verificate empietà analoghe, se non peggiori.
A Mariupol, ad esempio, si stima che ci siano cinquemila morti, molti civili, tra i quali ci sarebbero anche numerosi bambini.
Non è facile distinguere tra vite umane, è un esercizio al quale nessuno vorrebbe sottoporsi.
Ma è una delle tante crudeltà previste dalla guerra, che indurrebbe a volgere uno sguardo più compassionevole verso i cittadini inermi, specialmente quando appartengono a categorie particolarmente fragili, come gli anziani, gli ammalati, le donne incinte e, appunto, i bambini.
In realtà ogni vita è preziosa, a prescindere dalla bandiera o dalla divisa che si indossa.
Difatti, ha suscitato molta indignazione apprendere come pure tra gli invasori ci siano tanti ragazzi, appena diciottenni, probabilmente ignari della missione che era stata loro affidata.
E più costernazione ancora ha causato il sapere che neanche le loro famiglie fossero a conoscenza della guerra, che i loro figli andavano a combattere e, con molta probabilità, continuano a ignorarlo.
Lo sapranno fra qualche settimana, quando i reduci potranno riferirlo, dopo essere tornati in patria.
Temo che alcuni, invece, lo capiranno, vedendo il proprio congiunto in una bara, o ricevendo la sconvolgente comunicazione che risulta disperso.
Tuttavia, esiste qualcosa che distingue un militare da un civile ed è l’arma di cui il primo dispone, datagli affinché la usi.
E in guerra le armi si adoperano senza esitazione, senza riflettere su chi hai di fronte, se non vuoi che sia lui a utilizzarla prima contro di te, come spiega bene Fabrizio De André ne La guerra di Piero.
Si usano più per offendere che per difendersi, per togliere la vita agli atri che per salvare la propria.
Io non credo ci siano popoli naturalmente inclini all’efferatezza, come si narra in questi giorni.
Possono esserci reparti, addestrati materialmente e psicologicamente alla spietatezza.
Il resto lo fa la guerra, ogni guerra, con i suoi meccanismi disumani, che non risparmiano nessuno.
Chi è al fronte è risucchiato da un vortice di emozioni, una commistione di paura, ansia, orgoglio, fragilità, desiderio, frustrazione, potenza, sottomissione, riscatto, che, alla fine, lo istiga ad uccidere il prossimo, senza distinzione di età, di salute, di sesso.
Ad accanirsi contro di lui, ad abusare del suo corpo, seviziandolo, devastandolo, talora anche dopo morto.
Questa è la guerra, che fa uscire dall’essere umano il peggio di sé, precipitandolo in uno stato di abiezione senza fine.
Ecco perché essa non va solo condannata o rifiutata, ma ripudiata, ossia espunta dall’orizzonte giuridico, etico e soprattutto culturale di una nazione.
Adesso tutti ci chiediamo se qualcuno pagherà per quelli che la comunità internazionale ha già definito “crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.
Certamente occorrerà prima indagare bene, per accertare le responsabilità.
Ma siamo convinti che qualcuno sarà processato e, se ritenuto colpevole, condannato?
Pascal scriveva nei Pensieri: “La giustizia deve essere congiunta al potere, così che ciò che è giusto possa anche aver potere, e che ciò che ha potere possa essere giusto”.
La legittima associazione tra potere e giustizia ha, però, prodotto nel tempo plateali prevaricazioni.
Anche la storia ci insegna che i potenti, finché mantengono il potere, sfuggono sempre al giudizio degli uomini.
Per questo ha ragione il presidente Zelens'kyj che, alla domanda rivoltagli da una giornalista italiana su quale sarà la giustizia per i morti di Bucha, ha risposto: “Only God knows!”.