L’11 settembre di vent’anni fa molti si resero conto di avere vissuto una di quelle giornate che cambiano la storia, di avere assistito ad uno di quei fatti di cui si può dire: da oggi il mondo non sarà più come prima.
Gli storici chiamano queste situazioni “eventi fondanti”, perché pensano che con essi inizi una nuova epoca, come accadde con la presa della Bastiglia o con la scoperta dell’America.
Noi non sappiamo ancora cosa si sia generato dall’abbattimento delle Torri Gemelli, ma sappiamo già cosa è cambiato, cosa è rimasto per sempre sotto le macerie di quei due grattacieli, la cui costruzione, cominciata nel 1966, era stata completata nel 1973.
Innanzitutto l’egemonia mondiale esercitata fino ad allora dagli Stati Uniti.
Essi, che dopo la fine della Grande Guerra, erano apparsi come i veri vincitori del conflitto e, terminata la Seconda Guerra Mondiale, erano diventati l’unica potenza politica, economica e militare, in grado di portare avanti le sorti del pianeta, mostrarono tutta la loro vulnerabilità.
Per la prima volta erano stati colpiti a casa propria, con degli attacchi aerei kamikaze, nella città simbolo della magnificenza, con un bilancio terrificante di vittime: 2977 morti civili + 19 attentatori, 6400 feriti e 24 dispersi.
Chi di noi c’era, ricorderà benissimo le edizioni straordinarie dei tg, che mostravano quello che era successo e, sicuramente, saprebbe riferire dove si trovava e cosa stava facendo.
Le Twin Towers non furono l’unico obiettivo dei terroristi che, quasi in contemporanea, colpirono anche il Pentagono, in Virginia.
Mentre un altro aereo, diretto a Washington, precipitò in Pennsylvania, prima di giungere a destinazione, probabilmente a seguito di una ribellione messa in atto dai passeggeri.
La scelta dei bersagli ha suggerito pure una lettura ideologica dell’attacco, in quanto le torri erano la sede del World Trade Center, ossia il centro commerciale mondiale e dunque il cuore della finanza capitalista.
Il Pentagono è invece la sede del Ministero della Difesa, emblema dell’arsenale statunitense e della presenza militare americana in molte aree del mondo.
Osama Bin Laden, saudita e mente ispiratrice dell’accaduto, accusava infatti la monarchia araba di avere consentito l’installazione di basi militari americane all’interno del Regno.
Per un integralista islamico, tale presenza era ritenuta contaminatrice di un suolo che, in quanto sacro, può essere calpestato soltanto da persone degne.
L’imperialismo economico e militare dell’Occidente è, al contrario, considerato apportatore di corruzione e degrado morale.
Secondo questa visione, il massimo della profanazione si è raggiunto con la nascita dello Stato d’Israele in Palestina, principale alleato degli USA in Medio Oriente.
È evidente che non si può prescindere da quest’interpretazione della vicenda, confermata anche dal modo in cui essa si è compiuta, attraverso l’impiego di fanatici che hanno ucciso, uccidendosi.
Diceva Benedetto XVI che, quando la fede si scinde dalla ragione, nasce il fanatismo, in grado di generare mostri, qualunque sia il credo di riferimento, incluso quello cristiano.
Realisticamente non si possono, tuttavia, escludere altre spiegazioni, legate, ad esempio, al commercio del petrolio, il cui prezzo, nelle settimane successive all’attentato, subì un’impennata impressionante.
Da sottolineare pure, che quella del presidente Bush fosse una famiglia di importanti petrolieri texani.
Da qui tutta una serie di ipotesi complottiste, culminate nell’interessante film documentario di Michael Moore, “Fahrenheit 9/11”, vincitore della Palma d’Ora a Cannes nel 2004.
L’11 settembre va, a mio avviso, collegato pure al 9 novembre 1989, quando a Berlino cadde il muro che da un trentennio divideva in due la città.
Allora parve che la democrazia capitalista occidentale, essendo prevalsa sul totalitarismo marxista, si fosse consacrata definitivamente quale sintesi perfetta di politica ed economia.
Chi aveva pensato ciò si è dovuto ricredere più volte nei successivi decenni e non solo dopo l’abbattimento delle torri newyorkesi, ma anche durante questa pandemia, con la quale hanno drammaticamente dovuto fare i conti i mercati di tutto il mondo e, particolarmente, in occasione del ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, che ha sancito il fallimento di una missione, iniziata per esportare la democrazia, come se fosse un prodotto industriale.
Non è facile prevedere ciò che ci attende, Winston Churchill diceva di non conoscere una forma di Stato e di Governo migliori della democrazia.
E non credo che dai tempi suoi le cose siano cambiate.
Forse il problema è più etico che politico, nel senso che non è tanto la democrazia che non funziona, ma l’individualismo che ne è derivato, certamente incoraggiato dal capitalismo.
I nemici da combattere sono stati ben indicati da papa Francesco: l’indifferenza, la cultura dello scarto, la logica usa e getta, il razzismo, le nuove schiavitù, il dominio della tecnica.
Sin dall’inizio del suo pontificato egli insiste sulla necessità di un cambio di rotta, che garantisca a tutti il necessario a vivere e il riconoscimento dei diritti fondamentali.
Mi piace concludere col meraviglioso invito alla speranza da lui rivolto nella "Fratelli tutti": “[la speranza] «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. […] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa».
"Camminiamo nella speranza”.