L'85% dei giovani meridionali non è mai andata a teatro!
Anche questa settimana torno a parlare di scuola, alla luce dei dati INVALSI, recentemente pubblicati, dai quali risulterebbero pesanti lacune nella preparazione dei nostri alunni, soprattutto in italiano e matematica.
Se, infatti, la scuola primaria tiene e non presenta situazioni molto diverse dall’ultima rilevazione, nella secondaria di I grado il 35% degli studenti non raggiunge risultati adeguati in italiano (+5 rispetto al 2019) e il 45% non li ottiene in matematica (+6 rispetto al 2019), pressoché immutati, invece, gli esiti relativi all’inglese, con una variazione di soli 1/2 punti percentuali.
Al Sud (Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna) i dati peggiorano di gran lunga, assestandosi intorno al 50% per l’italiano, al 60% in matematica, al 30-40% in inglese-reading e al 60% in inglese-listening.
Più preoccupante ancora la situazione nella secondaria di II grado, dove gli alunni impreparati in italiano sono il 44% (+9 rispetto al 2019), in matematica il 51% (+9 rispetto al 2019), in inglese-reading il 51% (+3) e il 63% in inglese-listening (+2). Anche qui lo scenario del mezzogiorno è apocalittico: in Sicilia il 57% ha un rendimento inadeguato in italiano, il 70% in matematica, il 66% in inglese reading e l’80% in inglese listening.
Subito dopo la pubblicazione di questi dati, è iniziata la solita e nota discussione sullo stato in cui si trova la scuola italiana di oggi e soprattutto sulle cause che hanno determinato degli esiti così negativi.
Com’era prevedibile, si è addossata la responsabilità alla dad, divenuta ben presto il principale capro espiatorio.
Da addetto ai lavori, però, mi sento di socializzare delle precisazioni sull’attendibilità dei dati, sulla dad e su quali possono essere le vere ragioni che spiegano il basso rendimento dei nostri giovani.
Innanzitutto va chiarito che l’approccio che gli studenti hanno nei confronti delle prove INVALSI è molto distaccato e superficiale.
La maggior parte dei ragazzi si impegna soltanto se il lavoro è valutato e se dalla valutazione, potrà trarre profitto.
Non è il caso dell’INVALSI, che, come sappiamo, non ha nessuna ricaduta sul curriculum degli alunni.
Neanche l’atteggiamento delle scuole è molto favorevole, molte considerano le prove una inopinata interruzione dell’attività didattica. Ricordo che quando esse non erano obbligatorie, tante istituzioni le snobbavano o decidevano di non sottoporle ai loro allievi.
Anche se non potrà mai sostituire le lezioni in presenza, la dad ha comunque dei meriti innegabili perché, oltre ad avere permesso la prosecuzione dei programmi scolastici durante il lockdown, ha dato la possibilità ai docenti di mantenere una relazione con i propri alunni.
Abbiamo più volte parlato delle conseguenze psichiche avute da numerosi discenti, costretti a rimanere a casa per svariate settimane. Collegandosi con i loro insegnanti, essi riuscivano a riempire le giornate lunghe e interminabili, non soltanto per seguire le lezioni, ma anche per condividere ansie e speranze o momenti di intrattenimento ludico e culturale.
Ci sono professori, ad esempio, che hanno organizzato caffè letterari, incontri con autori, ma anche con gente dello spettacolo, messasi generosamente a disposizione: attori, cabarettisti, imitatori, cantanti.
Qualcuno potrebbe obiettare che tutto ciò sia andato a detrimento della preparazione, ma ormai dovrebbe risultare chiaro a tutti che la cultura non può rimanere ancorata ai libri di testo o alle lezioni frontali.
Essa è anche il frutto di variegate esperienze, organizzate e proposte dalla creatività educativa degli insegnanti.
Su piattaforme si sono potuti svolgere financo convegni, incontri sulla legalità, collegamenti con l’università e il CNR.
Forse chi ha preparato i quesiti dell’INVALSI avrebbe dovuto tenere conto della circostanza inedita vissuta dagli allievi e strutturare diversamente le prove.
Infine, se proprio dobbiamo individuare delle disfunzioni intrinseche al sistema scolastico, anziché accanirsi sulla dad, andrebbero focalizzati altri ambiti.
Mi riferisco ai PCTO, l’ex alternanza scuola-lavoro, che pretende di agevolare l’inserimento dei giovani nel mondo lavoro, sottraendo tempo allo studio.
Oppure ai programmi scolastici, sui quali abbiamo già espresso delle riserve, in particolare a riguardo delle discipline storiche, o ad un malaugurato accorciamento degli anni di scuola.
Da non sottovalutare, inoltre, il disamore per la lettura, che interessa milioni di giovani, i quali dichiarano candidamente di non leggere un libro da almeno un anno (il 52% dei ragazzi tra i 6 e i 18 anni lo ha ammesso nel 2016).
Vero è che attraverso i social, circolano articoli che non passano inosservati agli adolescenti, ma io mi riferisco ai classici, a Dostoevskij, a Manzoni, a Hugo, a Dante, a Leopardi.
Anche i teatri vedono una bassa partecipazione dei giovani, nel sud Italia la percentuale non va oltre il 15%, significa che l’85% dei ragazzi meridionali non ha mai assistito ad una rappresentazione di Pirandello, di Eduardo o di Shakespeare.
Questi sono i veri fattori che concorrono alla bassa qualità dell’istruzione e, purtroppo, non risalgono alla pandemia, ma sono molto più radicati e cronici.
Non chiudiamo, allora, gli occhi, ma affrontiamo con realismo e onestà un problema, che è molto più complesso di come lo si vuol presentare.
E chi ne ha la responsabilità, intervenga al più presto, almeno prima che sia troppo tardi.